Dedicazione della Basilica di Santa Maria Maggiore
Una festa cara al popolo romano che rende omaggio in questo giorno di agosto alla propria Regina ,la Salus populi Romani (anche detta Madonna della neve) a cui si affidano e nella quale confidano. In questa giornata vivono nella rievocazione durante il Gloria della messa solenne celebrata nella Basilica, la caduta della neve che è simulata da petali di fiori bianchi. Con la loro preghiera accorata i romani chiedono grazie alla Salus populi Romani per se stessi ,per la Città e per il mondo intero.
Questa memoria è collegata alla dedicazione della Basilica di santa Maria Maggiore sull’Esquilino di Roma, che viene considerata il più antico santuario mariano d’Occidente. La eresse, sul precedente edificio liberiano, il papa Sisto III (432-440) dedicandola a Dio e intitolandola alla Vergine, proclamata solennemente dal concilio di Efeso (431) Madre di Dio. (Mess. Rom.), S. Maria Maggiore, la quarta delle basiliche patriarcali di Roma, detta inizialmente Liberiana, sulla sommità dell’Esquilino, che papa Liberio (352-366) adattò a basilica cristiana. Narra una tardiva leggenda che la Madonna, apparendo nella stessa notte del 5 agosto del 352 a papa Liberio e ad un patrizio romano, li avrebbe invitati a costruire una chiesa là dove al mattino avrebbero trovato la neve. Il mattino del 6 agosto una prodigiosa nevicata, ricoprendo l’area esatta dell’edificio, avrebbe confermato la visione, inducendo il papa e il ricco patrizio a metter mano alla costruzione del primo grande santuario mariano, che prese il nome di S. Maria “ad nives”, della neve. Poco meno di un secolo dopo, papa Sisto III, per ricordare la celebrazione del concilio di Efeso (431) nel quale era stata proclamata la maternità divina di Maria, ricostruì la chiesa nelle dimensioni attuali.
Di quest’opera rimangono le navate con le colonne e i trentasei mosaici che adornano la navata superiore. All’assetto attuale della basilica contribuirono diversi pontefici, da Sisto III che poté offrire “al popolo di Dio” il monumento “maggiore” al culto della beata Vergine (alla quale rendiamo appunto un culto di iperdulia cioè di venerazione maggiore a quello che attribuiamo agli altri santi), fino ai papi della nostra epoca. La basilica venne anche denominata S. Maria “ad praesepe”, già prima del secolo VI, quando vi furono portate le tavole di un’antica mangiatoia, che la devozione popolare identificò con quella che accolse il Bambino Gesù nella grotta di Betlem.
La celebrazione liturgica della dedicazione della basilica è entrata nel calendario romano soltanto nell’anno 1568. La Salus Populi Romani è un’opera antichissima e per questo molto fragile. Il supporto su tavola è destinato pian piano a deteriorarsi.L’opera è stata restaurata poco tempo fa sotto la direzione della direttrice dei Musei Barbara Jatta .Forse la più celebre fra queste icone mariane è la tavola di Santa Maria Maggiore, particolarmente cara alla pietà popolare e tanto legata all’identità cittadina da meritare l’appellativo di Salus populi Romani, “salvezza del popolo romano” ora di nuovo restaurata. Tradizionalmente ritenuta originaria di Gerusalemme, dove sarebbe stata dipinta dallo stesso san Luca, per comparire poi a Roma sotto Sisto III (432-440) ed essere da lui donata alla basilica che era stata costruita dal suo predecessore Liberio sull’Esquilino (352-366), l’immagine mostra in realtà caratteri di stile cronologicamente molto più avanzati. L’iconografia della Madre col Figlio fonde infatti il tipo greco della Odighitria (dal greco hodeghètria, “colei che mostra la via”, cioè Cristo) con quello della glykophilùsa, (“che ama con dolcezza”, la Madre della tenerezza) rimandando dunque al canone della primitiva arte bizantina anteriore alla crisi iconoclasta e orientando quindi verso una datazione alta del manufatto (viii-ix secolo).
Tuttavia la stesura differenziata degli impasti cromatici, che alterna alla descrizione calligrafica di vesti e accessori la costruzione strutturata delle mani e dei volti, avvicina il dipinto a prodotti consimili del medioevo romano, venendo di conseguenza a situarsi tra il secolo xi e il xiii. Posta inizialmente nella navata principale della basilica liberiana, dal 1613 l’immagine si trova nell’attuale collocazione, sull’altare della cappella Borghese in Santa Maria Maggiore, all’interno di una teca bronzea munita di cristallo, con iscrizione dedicatoria di Paolo v (Camillo Borghese, 1605-1621).La tavola mostra l’immagine familiare della Madre di Dio (theotòkos), vestita di un manto (maphòrion) azzurro fregiato d’oro, mentre porta avanti le braccia per sorreggere il Bambino, tenendole incrociate all’altezza della vita: nella sinistra stringe una mappula, fazzoletto ricamato di uso cerimoniale, in origine collegato alla simbologia imperiale; con la destra, munita di anello, sembra accennare a un gesto, interpretato da alcuni come un’allusione di significato trinitario. Il mantello che ne disegna la figura le avvolge completamente le spalle e il capo, ma lascia intravedere la tunica, di cui fuoriescono le maniche e si riconoscono porzioni all’altezza del petto e dei fianchi.
La suprema eleganza dell’immagine, accentuata dalla fluidità dei contorni e dall’apparente disinvoltura della posa, è aumentata dall’intensità dello sguardo, parzialmente velato dalla penombra e diretto ostentatamente di lato. Il Bambino stesso, vestito di un hymàtion e con la destra portata avanti in gesto di benedizione, rivolge il proprio sguardo alla Madre, mentre l’espressione adulta e il codice preziosamente rilegato che impugna con la sinistra conferiscono centralità e importanza al suo ruolo.