Il 20 aprile 1993, 28 anni fa, moriva don Tonino Bello
Il 20 aprile 1993, 28 anni fa, moriva don Tonino Bello, vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, instancabile operatore di pace e presidente di Pax Christi Italia. Nel suo impegno don Tonino, più di una volta, si trovò a difendere e a promuovere la scelta dell’obiezione di coscienza e il valore del servizio civile, “dall’obiezione di coscienza alla coscienza dell’obiezione” usava dire. Portò avanti anche in prima persona scelte coraggiose, come ad esempio quando già malato, nel dicembre 1992, partecipò alla marcia nonviolenta su Sarajevo nel momento più critico della guerra. Vogliamo ricordarlo nell’anno dedicato da Papa Francesco a San Giuseppe con la lettera che il vescovo di Molfetta, scrisse all’amato Santo.
Lettera a San Giuseppe
Caro San Giuseppe,
scusami se approfitto della tua ospitalità e mi fermo per una mezz’oretta nella tua bottega di falegname per scambiare
quattro chiacchiere con te.
Non voglio farti perdere tempo. Vedo che ne hai così poco, e la mole di lavoro ti sovrasta. Perciò, tu continua pure a
piallare il tuo legno, mentre io, seduto su una panca, in mezzo ai trucioli che profumano di resine, ti affido le mie
confidenze.
Non preoccuparti neppure di rispondermi. So, del resto che sei l’uomo del silenzio, e consegni i tuoi pensieri, profondi
come le notti d’Oriente, all’eloquenza dei gesti più che a quella delle parole. Vedi, un tempo anche da noi le botteghe
degli artigiani erano il ritrovo feriale degli umili, vi si parlava di tutto, di affari, di donne, di amori, delle stagioni, della
vita, della morte. Le cronache di paese trovavano lì la loro versione ufficiale, e i redattori dell’innocuo pettegolezzo
quotidiano affidavano alle rapidissime rotative degli avventori la diffusione delle ultime notizie.
Il tempo passava così lento, che gli intervalli scanditi ogni quarto d’ora dalla torre campanaria sembravano un’eternità, ma
forse era proprio questa lusinga di eternità a rendere preziosa un’opera di artigianato e a darle vita era proprio quella
angosciante porzione di tempo che vi veniva rinchiusa. Sembrava che la materia prima di una seggiola o di un vomere non
fosse tanto il legno od il ferro, ma il tempo; e che la fatica del fabbro o del carpentiere, del sarto o del calzolaio fosse
quello di addomesticare i giorni comprimendoli nella materia e crearsi per un istinto di conservazione riserve di tempo
negli otri delle cose prodotti dalle sue mani. Il tempo allora era imprigionato nella materia come l’anima nel corpo,
ruggiva dentro un oggetto e gli dava movenze di vita se non proprio l’accento della parola. Le cose nascevano perciò
lentamente e con i tratti di una fisionomia irripetibile. Come un figlio, prima un atto d’amore, dolcissimo e breve, poi
nove mesi.
Oggi purtroppo qui da noi di botteghe artigiane ne sono rimaste veramente poche. Al loro posto sono subentrate le
grandi aziende di consumo: non si genera più, o meglio si concepisce solo l’archetipo, ma senza passione e con molto
calcolo. L’archetipo poi, questo sordido ermafrodita, riproduce con ritmi di allucinante rapidità, squallidi sosia, con l’unico
desiderio che campino poco. Ed eccoli lì, allineati, questi elegantissimi mostriciattoli dalla vita breve, belli, ma senz’anima,
perfetti, ma senza identità, lucidi, ma indistinti. Non parlano perché non sono frutto di amore, non vibrano, perché nelle
loro vene non ci sono più i fremiti del tempo prigioniero.
Si, Giuseppe! È proprio questa anemia di tempo che rende gelide le nostre opere.
Ecco, attraverso l’uscio socchiuso, scorgo di là Maria intenta a ricamare un panno bellissimo, senza cuciture, tutto tessuto
d’un pezzo da cima a fondo. Probabilmente è la tunica di Gesù, ma non per quando nascerà, per quando sarà grande:
gliela prepara fin d’ora, prima già che lui nasca.
Io non me ne intendo, e perciò non so se gli arabeschi che disegna con l’ago siano fatti a punto erba o a punto ombra.
Forse sono fatti a punto a croce.
Una cosa, però, intuisco: che quando tuo figlio indosserà quella tunica, lui, l’eterno, si sentirà le spalle amorosamente
protette dal fragile tempo di sua Madre.
Povera Maria. A suo figlio, vorrebbe dargliela tutta intera la sua vita. Ma non può. Allora gliene regala una porzione, fin
da adesso, racchiusa nello scrigno di quella tunica.
Forse un giorno, proprio per questo, sulla vetta del Golgota, gli uomini della Croce non vorranno lacerarla.
Oggi da noi, anche i ricami vengono fatti in serie.
C’è una ditta, la quale ha inventato una macchina che fa i punti perfetti, e non soltanto quelli!
E se tu dopo aver comprato in un negozio della città di san Francesco, un guanciale disegnato o a “punto assisi”, la notte
pensi di poggiare il capo su un frammento di tempo regalatoti da un’anonima ricamatrice, bella come Santa Chiara, ti
illudi amaramente.
Questo è forse il sacrilegio più grave della nostra civiltà. La distruzione del tempo, e col tempo dell’amore, della fantasia,
della bellezza, dell’arte.
Abbiamo creduto che per fare un tavolo sia sufficiente il legno!
Oh Dio! Riusciamo pure ad ammettere che per fare il legno ci vuole l’albero, e che per fare l’albero ci vuole il seme. E
perfino che per fare il seme ci vuole il fiore. Ma non abbiamo più il coraggio di concludere che per fare un tavolo ci
vuole un fiore! E lo lasciamo dire solo ai poeti!
Ma se oggi qui da noi di botteghe artigiane è rimasto solo qualche nostalgico scampolo, non è tanto perché non si
genera più, quanto perché ormai non si ripara più nulla.
Vedi Giuseppe in questi pochi minuti da che sto parlando con te sono già entrati nella tua bottega un bambino in
lacrime con la ruzzola a cui rifare l’asse, una vecchietta con la scranna da impagliare di nuovo, un contadino con un
mastello a cui si è infracidito una doga, un carrettiere col mozzo di una ruota che si è sgranato dai raggi.
Da noi non si usa più!
Quando un oggetto si è anche leggermente incrinato nella sua funzionalità, lo si mette da parte senza appello. Del resto
se nelle sue viscere non racchiude un’anima d’amore, per quale scopo accanirsi a ridare la vita ad un corpo già nato
cadavere.
La nostra la chiamiamo perciò la civiltà dell’usa e getta!
Al televisore che sta in cucina si è fulminato un relè, niente paura! Viene messo da parte e sostituito con un altro che ha
il video registratore incorporato.
Alla bambola che sembra sia stata sorpresa da un colpo apoplettico perché si sono scaricate le pile, poco importa! Portala
al bidone della spazzatura! Ne acquisteremo una di quelle che sono vendute con tanto di certificato di nascita, si sposano,
fanno all’amore e vanno nei campeggi estivi.
Al fucile giocattolo regalato al bambino il giorno di natale è caduto il grilletto? Presto fatto! Per la Befana sarà pronto un
mitra col nastro delle pallottole attorno al carrello, o addirittura un sottomarino lanciamissili con la verifica
computerizzata degli obiettivi colpiti.
Alla giacca di fustagno è caduto un bottone? Al soprabito di velluto si è scucita la fodera? Al reggiseno di pizzo si è
allentato l’elastico? A un paio di sandali si è staccata la fibbia? Non vale la spesa ripararli! Porta via al macero, senza
scrupoli. Anzi no! Un momento! Tra giorni passeranno quelli della Caritas parrocchiale. Così ci liberiamo il guardaroba da
ingombri fastidiosi, e poi, diamine! Aiutiamo la gente!facendo contento il Signore il quale ha detto che i poveri li abbiamo
sempre con noi.
Un angolo di paradiso, un giorno, non ce lo negherà certamente, visto che ce lo stiamo accaparrando, sia pure con i
riciclaggi delle nostre cose superflue.
Ma che c’è Giuseppe! Vedo che ti sei fermato col martello, brandito a mezz’aria, e i tuoi occhi dolenti mi trafiggono con
uno sguardo di disgusto.
Ho capito!
Quel tuo sguardo vuol dire: “mi fate pietà”!
Altro che usa e getta, valicando davvero ogni limite, avete invertito la fase in “getta e usa”, visto che siete così abbietti da
snaturare perfino l’intima essenza della carità, piegandola alla vostra libidine di possesso.
Si, hai ragione falegname di Nazaret. Siamo proprio giunti a tale grado di perfidia, che pretendiamo di elevare a livelli di
purezza i liquami delle nostre cupidigie.
Traffichiamo persino le scorie del nostro egoismo, verniciamo di solidarietà gli scarti del nostro tornaconto, e con una
oscena mascherata di gratuità ci illudiamo di riscattarci dal nostro interminabile inverno dell’amore.
E guarda che non ti ho detto tutto! Perché ho ancora paura di quel martello che è rimasto brandito a mezz’aria. Se infatti
dovessi raccontarti di quelle operazioni filantropiche tenute a battesimo dalla televisione, son sicuro che metterei a dura
prova la tua tenuta di “uomo non-violento”.
Che vuoi farci! Questi si, sono i misteri buffi, di cui dovremmo vergognarci e contro cui dovremmo ribellarci e nel cui
oceano stiamo tutti facendo naufragio.
Ma se oggi qui da noi, in questo crepuscolo tormentato del secolo ventesimo, le botteghe artigiane sono pressoché
sparite non è solo perché non si genera più e neppure perché non si ripara più nulla. È perché non c’è più tempo per la
carezza. Mi spiego!
Vedi Giuseppe, da quando sono entrato nella tua bottega, quante carezze non hai fatto su quel legno denudato dalla
pialla!
Tutte le volte che l’hai strisciato con il ferro, subito vi sei passato sopra con la mano, leggera come la luce che trema
sulle acque: non saprei bene se per proteggerne la verecondia; o per velargli, un attimo appena, la bianca intimità; o per
compensare con un gesto di tenerezza il trauma della violenza. E anche ora, mentre ti parlo, passi e ripassi con le dita
sugli spigoli smussati dallo scalpello, e ne levighi le asprezze, col medesimo amore con cui la pecora madre asciuga con la
lingua l’agnello appena nato.
Poi cicatrizzi le ferite del legno, provocate dal trapano e dai chiodi, con gli stucchi, canforati come unguenti d’Arabia. Vi
stendi sopra il balsamo delle vernici, che impregnano l’aria d’un acre profumo, e continui a blandire con la colla gli assi di
faggio che ora luccicano come uno specchio. Quante carezze: con le palme della mano, con i pennelli, con le spatole, con
gli occhi. Sì, anche con gli occhi, perché, ora che hai finito una culla, sei tu che non ti stanchi di cullarla con lo sguardo.
Oggi purtroppo da noi, non si carezza più, si consuma solo, anzi si concupisce. Le mani incapaci di dono, sono divenute
artigli, le braccia troppo lunghe per amplessi oblativi, si sono ridotte a rostri che uncinano, senza pietà, gli occhi
prosciugati di lacrime ed inabili alla contemplazione, si sono fatti rapaci, lo sguardo trasuda libidine di possesso, e il
dogma dell’usa e getta è divenuto il cardine di un cinico sistema binario che regola le aritmetiche del tornaconto e
gestisce l’ufficio ragioneria dei nostri comportamenti quotidiani. Perciò si violenta tutto! E non soltanto le cose, il cui
spessore di sostanza si è così rinsecchito da lasciare vibrare soltanto l’immagine esteriore.
Ma anche le persone! Il corpo, degradato a merce di scambio, è divenuto spazio pubblicitario e manichino per prodotti di
consumo! L’eros mercantile corrode alla radice i rapporti interumani, sgretola la comunione, frantuma l’intimità, irride la
famiglia, commercializza la donna. E con i postulati di marketing degli spot televisivi, spersonalizza irrimediabilmente la
sessualità, riducendola ad una variabile della cupidigia di potere.
Non c’è da meravigliarsi perciò che tra le allucinanti simbologie di questa civiltà dei consumi Rambo costituisca la testa di
serie nelle graduatorie più gettonate della violenza. E tanto meno c’è da scandalizzarci, se stanno così le cose che il
Presidente Regan abbia detto, sia pure scherzando, che dopo aver visto Rambo, sa che cosa fare la prossima volta che dei
cittadini americani verranno presi in ostaggio.
Vedo, però che si fa tardi. Il sole, calando sulla pianura di Esdrelon, illumina di porpora gli ultimi contrafforti dei monti
di Galilea. E io ancora non ti ho detto la ragione fondamentale per la quale sono venuto qui da te.
No, non è per affliggerti con le lamentazioni mistiche sulla cattiveria dei tempi, e neppure per evitare gli incroci pericolosi
della mia civiltà, che ho trovato rifugio sentimentale nell’oasi della tua bottega, dove, tra tenaglie, lime e seghetti, attaccati
in bella mostra alle pareti, sono rimasti attaccati anche i ricordi del tempo che fu; anzi, se ti ho dato quest’impressione di
fuga all’indietro non giudicarmi un introverso pure tu, vittima magari di un raptus da regressione; bastano già gli
psicanalisti che abbiamo da noi, di fronte ai quali devi difenderti dai tuoi stessi sentimenti, se non vuoi finire nella morsa
della loro logica, impietosa, almeno quanto la morsa che sta sul tuo bancone di falegname!
Mio caro San Giuseppe, io sono venuto qui, soprattutto per conoscerti meglio come sposo di Maria, come padre di
Gesù, e come capo di una famiglia per la quale hai consacrato tutta la vita.
E ti dico subito che la formula di condivisione espressa da te, come marito di una vergine, la trama di gratuità realizzata
come padre del Cristo, e lo stile di servizio messo in atto come responsabile della tua casa, mi hanno da sempre così
incuriosito, che ora non solo vorrei saperne qualcosa di più, ma mi piacerebbe capire in che misura questi paradigmi
comportamentali siano trasferibili nella nostra società dell’usa e getta.
Dimmi, Giuseppe, quand’è che hai conosciuto Maria? Forse un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del
villaggio con l’anfora sul capo e con la mano sul fianco, snello come lo stelo di un fiordaliso?
O forse un giorno di sabato, mentre con le fanciulle di Nazareth conversava in disparte, sotto l’arco della sinagoga?
O forse un meriggio d’estate, in un campo di grano, mentre abbassando gli occhi splendidi, per non rivelare il pudore
della povertà, si adattava all’umiliante mestiere di spigolatrice?
Quando ti ha ricambiato il sorriso e ti ha sfiorato il capo con la prima carezza, che forse era la sua prima benedizione e
tu non lo sapevi?
E la notte tu hai intriso il cuscino con lacrime di felicità.
Ti scriveva lettere d’amore? Forse si! E il sorriso con cui accompagni il cenno degli occhi verso l’armadio delle tinte e
delle vernici mi fa capire che in uno di quei barattoli vuoti, che ormai non si aprono più, ne conservi ancora qualcuna!
Poi una notte hai preso il coraggio a due mani e sei andato sotto la sua finestra, profumata di basilico e di menta e le hai
cantato sommessamente le strofe del Cantico dei Cantici: “Alzati amica mia, mia bella e vieni, perché ecco, l’inverno è
passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato, e la voce della
tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza.
Alzati amica mia, mia bella e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi,
mostrami il tuo viso, fammi sentire la tuia voce, perché la tua voce è soave e il tuo viso è leggiadro.
E la tua amica, la tua bella si è alzata davvero, è venuta sulla strada, facendoti trasalire, ti ha preso la mano nella sua e
mentre il cuore ti scoppiava nel petto, ti ha confidato lì, sotto le stelle, un grande segreto.
Solo tu, il sognatore, potevi capirla. Ti ha parlato di Jahvè. Di un angelo del Signore. Di un mistero nascosto nei secoli e
ora nascosto nel suo grembo. Di un progetto più grande dell’universo e più alto del firmamento che vi sovrastava.
Poi ti ha chiesto di uscire dalla sua vita, di dirle addio e di dimenticarla per sempre.
Fu allora che la stringesti per la prima volta al cuore e le dicesti tremando: “Per me, rinuncio volentieri ai miei piani.
Voglio condividere i tuoi, Maria, purché mi faccia stare con te”. Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo con una
carezza: era la tua prima benedizione sulla Chiesa nascente.
Spero che dietro quegli assi di castagno appoggiati alla parete non ci sia nascosto qualche rabbino, esperto di teologia, se
no troverà anche lui un buon capo d’accusa per deferirmi davanti all’“arcisinagogo”!
Ma io penso che hai avuto più coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a condividere
il progetto del Signore. Lei ha puntato tutto sull’onnipotenza del Creatore. Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una
creatura. Lei ha avuto più fede, ma tu hai avuto più speranza. La carità ha fatto il resto in te e in lei.
Ma ora Giuseppe, cambiamo discorso!
Sta arrivando una donna dal forno. Ecco, ti ha portato del pane, e la bottega si è subito riempita di fragranza.
Frattanto colgo il destro di questa interruzione per osservare che sono davvero fortunato, dal momento che il Signore mi
sta mettendo sotto gli occhi i simboli giusti nel momento giusto! Stavamo parlando di condivisione, ed ecco il segno più
classico: il pane!
Si direbbe che il pane, più che per nutrire, è nato per essere condiviso: con gli amici, con i poveri, con i pellegrini, con gli
ospiti di passaggio! Spezzato sulla tavola, cementa la comunione dei commensali; deposto nel fondo di una bisaccia
riconcilia il viandante con la vita; offerto in elemosina al mendico, gli regala un’esperienza, sia pure fugace di fraternità;
donato a chi bussa di notte nel bisogno, oltre a quella dello stomaco, placa anche la fame dello spirito, che è fame di
solidarietà; raccolto nelle sporte, dopo un pasto miracolo sull’erba verde, sta ad indicare che a chi sa fare la divisione, gli
riesce bene anche la moltiplicazione!
E’ proprio vero, Giuseppe. Il pane è il sacramento più giusto del tuo vincolo con Maria. Lei morde ogni giorno quello di
frumento, procuratole da te col sudore della fronte. Tu mordi il pane del tuo destino che l’ha resa Madre del Figlio di
Dio.
E’ per questo che per noi, o falegname di Nazareth, tu sei provocatore di condivisioni generose e assurde, appassionate e
temerarie, al centro della sapienza e al limite della follia.
Insegnaci, allora, a condividere il pane con i fratelli poveri, in questo nostro mondo, dove purtroppo muoiono ancora più
di cinquanta milioni di persone per fame.
Il pane da segno di comunione, si è trasformato in simbolo della scomunica, ed è divenuto il discrimine sul cui filo passa
la logica della guerra: viene accaparrato dagli ingordi, non condiviso dai poveri, ammuffisce nelle credenze degli avidi, non
allieta la madia degli umili, si accumula negli artigli di pochi, non si distribuisce sulle bocche di tutti! Sovrabbonda nei
bidoni della spazzatura d’Europa, ma è sparito sulle mense desolate dell’Eritrea. Trabocca senza pudore negli opulenti
cenoni del Nord, ma è sogno proibito per tutti i Sud della Terra!
Viene diviso anche; sì, viene diviso, come gesto munifico di regalità, ma non viene restituito a chi ne ha diritto, con i
canti gregoriani della penitenza e in nome della giustizia!
Hai sentito mai dire, Giuseppe, che se i ghiacciai eterni dell’Ermon, si sciogliessero d’incanto, le acque sprofonderebbero a
valle con pro rose tracimazioni, il lago di Tiberiade diventerebbe un mare, il giordano strariperebbe, rompendo gli argini,
e l’arsura dell’intera Palestina, verrebbe per sempre placata!
E allora! Visto che presso l’Altissimo, ce ne sono poco di santi così referenziati come te, perché non provochi un
fenomeno simile, scongelando le ricchezze dalle mani di pochi e travolgendo la terra in un cataclisma di pane. E se questo
ti sembra un miracolo troppo grosso per i tuoi mezzi, perché almeno non persuadi la Chiesa del Duemila a farsi carico
con più fiducia della sorte degli ultimi, non solo spartendo le sue ricchezze con i poveri, ma soprattutto condividendo la
miseria degli esclusi.
Oggi più che mai vogliamo sperimentarti così, quale Protector Sancte Ecclesiae, Protettore della chiesa dei derelitti, degli
emarginati, dei violentati, dei palestinesi, dei marocchini, dei terzomondiari, degli sfrattati, degli sfruttati, dei prigionieri, e
degli inquilini di tutte le più squallide periferie dell’umanità.
Capisco che se non mi rispondi non è solo perché tu sei l’uomo del silenzio, ma anche perché la fornaia si è attardata
nella tua bottega. Ha visto la culla e non ha smesso di contemplarla per un istante. Poi si è curvata, ha steso il mantello
per terra e l’ha riempito di trucioli e di segatura, di ritagli e di assicelle. Ogni sera, così, lei fa il carico per accendere il
forno e a te rimane il pavimento pulito e un pane di granturco per la cena.
Ma, a proposito, ora che siamo rimasti soli, vuoi spiegarmi, Giuseppe, come hai accolto il mistero di quella culla? E
perché mai tu, l’uomo dei sogni, torni ogni tanto verso quel piccolo nido di legno, e trattieni il respiro, e tendi l’orecchio
illudendoti di ascoltare un vagito?
Oh, figlio della casa di Davide, raffrena la tua impazienza: il bambino che sta per nascere è sì un Dio gratuito, tanto
gratuito che spunterà come rugiada sul vello, ma tu devi attendere ancora, e anche la culla deve attendere; anzi, non
rimanerci male se ti dico che quel nido, costruito da te con tanta tenerezza, resterà vuoto per sempre: sarà troppo
piccolo per tuo figlio, quando egli, dopo tanto peregrinare, metterà piede finalmente nella tua casa. Da ben altro legno
del resto saranno cullate le membra del Dio fatto uomo! Ma stavolta non spetta a te costruirlo!
Vedo che la notizia non ti turba granché. Hai così tanto imparato dalla gratuità purissima di Dio, da non provare il
minimo sgomento al pensiero che la tua fatica non sarà compensata neppure dalla soddisfazione di sentirti utile a
qualcosa.
Culla o greppia, non t’importa. Non pretendi neppure contropartite affettive e continui ad attendere come dono, come
semplice dono, da nulla provocato, se non dalla sua stessa liberalità, il tuo imprevedibile Dio: O cieli piovete dall’alto, o
nubi mandateci il Santo, o terra, apriti o terra e germina il Salvatore.
Anche la tua vita si è fatta dono. Un dono così grande, che in paragone quello filtrato dal seme corruttibile della carne,
sembra appena l’acconto di un avaro. Un dono così libero che tutte le paternità messe insieme dai titolari della tua
genealogia, non pareggiano il tuo diritto di chiamarti padre di Gesù.
Un dono così radicale che, pur custodendo la verginità di Maria, ti fa una sola carne con lei infinitamente più di quanto
non siano tutt’uno due sposi nel momento supremo dell’amore.
Un dono così gioioso, che la tua contabilità non è segnata sui registri a partita doppia, contempla solo la voce in uscita.
Tu non chiedi nulla per te. Neppure da Dio! Ma non per orgoglio, per sovraccarico d’amore, dai tutto senza calcolo, e
non accantoni oggi frammenti oscuri di tempo, allo scopo di ritirare domani interessi di gloria per tutta l’eternità.
Ssssttt….!!!
Silenzio Giuseppe, un carro si è fermato alla tua porta. Entra un uomo, molto stanco, e poggia sul bancone un piccolo
otre di vino, e dice: “Ho attraversato tutta la Giudea e la Samaria, e debbo raggiungere, prima che sia notte la terra di
Zabulon. Ti ho portato un po’ di vino, dalle vigne di Engaddi, laggiù presso il Mar Morto. E’ di quello buono. Bevilo
Giuseppe, alla mia salute con la tua sposa. So che aspettate un figlio”.
Beh, stasera il Signore vuole mostrarsi particolarmente generoso anche con me, perché mi ha messo sotto gli occhi un
altro simbolo, quello della gratuità e della festa.
Dopo il pane della fornaia, ecco il vino del carrettiere, il vino che rallegra il cuore dell’uomo.
Mah, vedo Giuseppe che ti accingi a chiudere, perché hai preso un orciolo di terracotta e stai uscendo per riempirlo
d’acqua alla fonte vicina. Io allora approfitto della tua assenza per leggere in negativo quel simbolo della letizia, appoggiato
sul bancone, e chiedermi se per caso questa mia irruzione di stasera nella tua bottega di Nazaret, non sia stata un’evasione
puramente letteraria, in un mondo, che con quello in cui mi tocca vivere, non ha nulla da spartire.
Ci vuole infatti un bel coraggio a dire che il vino è segno di gratuità e di festa, quando per noi è divenuto l’emblema
drammatico dell’evasione e della fuga, che accomuna i tossici agli alcolisti, gli ultras ai barboni! Ma perché mai il vino si è
pervertito in idolo fascinoso per chi getta le armi e rinuncia ad un’esistenza troppo faticosa da vivere?
Il motivo c’è: abbiamo smarrito l’ebbrezza della gratuità e c’è rimasta solo l’ebbrezza dell’alcol! Sicché in un mondo
regolato dai petroldollari, angosciato dai crolli di Wall Street, retto dalle bilance dei pagamenti, che irta con la
speculazione, che si infischia dei debiti dei popoli in via di sviluppo, che si lascia sedurre dalla massimizzazione del profitto,
che monetizza persino il rischio delle popolazioni, i cui terreni sono espropriati per farne basi militari, che sfrutta i poveri
col traffico delle armi, che è sordo alle esigenze di un nuovo ordine economico internazionale.
In un mondo del genere, come può esplodere la gioia?
Ci si lascia vivere! Si amoreggia con il fatalismo! Ci si appiattisce in un’esistenza che scorre senza più stupore, senza
spessore, come le immagini sul video. E noi compiamo le nostre scelte come se spingessimo i tasti di un telecomando.
Crediamo di scegliere e invece siamo scelti!
Si muore per anemia cronica di gioia, si moltiplicano le feste, ma manca la Festa!
E le letizie diventano sbornie! Gli incontri frastuoni e i rapporti umani, orge da lupa mari!
Meno male Giuseppe che hai fatto presto a tornare dalla fonte. Vedi in tua assenza sono stato colto da un pauroso
deficit di speranza e ho temuto addirittura di dover uscire dalla tua bottega per la tangente del pessimismo!
Ma ora che sei rientrato anche il vino di Engaddi, lassù sul bancone, torna a rosseggia di letizia pasquale e risplende come
simbolo della festa. Bevilo con Maria alla salute del carrettiere che te l’ha regalato; ma anche alla buona fortuna di tuo
figlio che sta per nascere. Un giorno egli farà scorrere il vino sulle mense dei poveri, e sceglierà il succo della vite come
sacramento del sabato eterno.
Anzi, se non ti dispiace, mettimene un poco, in quel boccale di creta, me lo voglio portare come ricordo di
quest’incontro, e anche di quell’acqua che sgocciola ancora sul pavimento, dammene un poco!
Non è acqua inquinata quella! Le piogge acide, le discariche industriali e gli additivi chimici l’hanno ancora preservata,
lasciandola come simbolo di purezza e di armonia ecologica.
Dammi della tua acqua, la quale è molto utile, et humile, et pretiosa et casta.
Ma dammela soprattutto perché, da quando tuo figlio la userà per lavare i piedi ai suoi amici, in una sera di tradimenti,
del mese di Nisan, diverrà il simbolo di un servizio d’amore che è la spiegazione segreta della condivisione, della gratuità e
della festa.
E visto che ci siamo, dammi anche di quel pane!
No, non tutto! Spezzamelo Giuseppe! Condividilo con me! Un giorno anche tuo figlio lo spezzerà prima di morire, e la
speranza traboccherà sulla terra.
L’acqua, il vino, il pane: la trilogia di un’esistenza ridotta all’essenziale! Li porterò con me, nella bisaccia del pellegrino. Mi
serviranno tanto, sulla mia strada di viandante un po’ stanco. E serviranno tanto anche alla mia Chiesa, anzi quando mi
chiederà qualcosa, spero di non aver null’altro da darle che questo: né denaro, né prestigio, né potere, ma solo acqua,
vino e pane!
Si è fatto tardi, Giuseppe. Si è fatto tardi, Giuseppe.
Nella piazza non c’è più nessuno. I grilli cantano sul cedro del tuo giardino. sul cedro del tuo giardino.
Nelle case, le famiglie recitano lo “Shemà Israel”. Nelle case, le famiglie recitano lo “Shemà Israel”. E tra poco Nazareth si addormenterà sotto la luna. ra poco Nazareth si addormenterà sotto la luna. Di là, vicino al fuoco, là, vicino al fuoco,
la cena è pronta. Cena di povera gente. L’acqua della fonte, il pane di giornata, e il vino di Engaddi.
E poi c’è Maria che ti aspetta. E poi c’è Maria che ti aspetta.
Ti prego: quando entri da lei, sfiorala con un bacio. Falle una carezza pure per me. o. Falle una carezza pure per me.
E dille che anch’io le voglio bene. Da morire! E dille che anch’io le voglio bene. Da morire!
Buona notte, Giuseppe! Buona notte, Giuseppe!
+ Don Tonino Bello (4 Marzo 1990)