Il Card. Raniero Cantalamessa ha tenuto la quinta e ultima Predica di Quaresima

Alle ore 9 di questa mattina, nell’Aula Paolo VI, alla presenza del Santo Padre Francesco, il Predicatore della Casa Pontificia, l’Em.mo Card. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., ha tenuto la quinta e ultima Predica di Quaresima.Tema delle meditazioni quaresimali è il seguente: “Prendete, mangiate: questo è il mio corpo” – Una catechesi mistagogica sull’Eucaristia.

Di seguito il testo:

Questa ultima meditazione sull’Eucaristia parte da una domanda: Perché Giovanni, nel racconto dell’ultima cena, non parla dell’istituzione dell’Eucaristia, ma parla invece, al suo posto, della lavanda dei piedi? Proprio lui che aveva dedicato un capitolo intero del suo Vangelo a preparare i discepoli a mangiare la sua carne e bere il suo sangue?

Il motivo è che in tutto ciò che riguarda la Pasqua e l’Eucaristia, Giovanni mostra di voler accentuare più l’evento che il sacramento, cioè più il significato che il segno. Per lui, la nuova Pasqua non comincia tanto nel Cenacolo, quando si istituisce il rito che la deve commemorare (si sa che l’ultima cena di Giovanni non è una cena “pasquale); comincia piuttosto sulla croce quando si compie il fatto che deve essere commemorato. È lì che avviene il passaggio dalla Pasqua antica a quella nuova. Per questo egli sottolinea che a Gesú sulla croce “non fu spezzato alcun osso”: perché così era prescritto per l’agnello pasquale nell’Esodo.(Gv 19,36; Es 12,46).

Il significato della lavanda dei piedi

È importante comprendere bene il significato che ha per Giovanni il gesto della lavanda dei piedi. La recente costituzione apostolica Praedicate Evangelium ne fa menzione nel Preambolo, come l’icona stessa del servizio che deve caratterizzare tutto il lavoro della Curia Romana riformata. Essa ci aiuta a capire come si può fare, della vita, una Eucaristia e così “imitare nella vita ciò che si celebra sull’altare”. Siamo davanti a uno di quegli episodi (un altro è quello della trafittura del costato), in cui l’evangelista lascia intendere chiaramente che c’è sotto un mistero che va al di là del fatto contingente che potrebbe, in se stesso, sembrare trascurabile.

“Io – dice Gesù – vi ho dato l’esempio”. Di che cosa ci ha dato l’esempio? Di come si devono lavare materialmente i piedi ai fratelli, ogni volta che ci si mette a tavola? Certamente non di questo soltanto! La risposta è nel Vangelo: “Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10, 44-45).

Nel Vangelo di Luca, proprio nel contesto dell’ultima cena, è riportata una parola di Gesù che sembra pronunciata a conclusione della lavanda dei piedi: “Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22, 27). Secondo l’evangelista, Gesù disse queste parole perché tra i discepoli era sorta una discussione su chi di loro poteva essere considerato il più grande (cf Lc 22, 24). Forse fu proprio questa circostanza che ispirò a Gesù il gesto della lavanda dei piedi, come una specie di parabola in azione. Mentre i discepoli sono tutti intenti a discutere animatamente tra loro, egli si alza silenziosamente da tavola, cerca un catino d’acqua e un asciugatoio, poi torna indietro e si inginocchia davanti a Pietro per lavargli i piedi, gettandolo, comprensibilmente, nella più grande confusione: “Signore tu lavi i piedi a me?” (Gv 13, 6).

Nella lavanda dei piedi, Gesù ha voluto come riassumere tutto il senso della sua vita, perché rimanesse bene impresso nella memoria dei discepoli e un giorno, quando avrebbero potuto capire, capissero: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo” (Gv 13, 7). Quel gesto, posto a conclusione dei Vangeli, ci dice che tutta la vita di Gesù, dall’inizio alla fine, fu una lavanda dei piedi, cioè un servire gli uomini. Essa, come dice qualche esegeta, fu una pro-esistenza, cioè un’esistenza vissuta a favore degli altri.

Gesù ci ha dato l’esempio di una vita spesa per gli altri, una vita fatta “pane spezzato per il mondo”. Con le parole: “Fate anche voi come ho fatto io”, Gesù istituisce dunque la diakonía, cioè il servizio, elevandolo a legge fondamentale, o, meglio, a stile di vita e a modello di tutti i rapporti nella Chiesa. Come se dicesse, anche a proposito della lavanda dei piedi, ciò che disse nell’istituire l’Eucaristia: “Fate questo in memoria di me!”.

A questo punto però devo fare una piccola digressione prima di proseguire il discorso. Un antico Padre, il beato Isacco di Ninive, dava questo consiglio a chi è costretto, dal dovere, a parlare di cose spirituali, alle quali non è ancora giunto con la vita: “Parlane –diceva- come uno che appartiene alla classe dei discepoli e non con autorità, dopo aver umiliato la tua anima ed esserti fatto più piccolo di ogni tuo ascoltatore” . Ecco, Venerabili padri, fratelli e sorelle, lo spirito con cui oso parlare di servizio a voi che lo vivete giorno per giorno.

Ricordo l’osservazione scherzosa che una volta fece a noi membri della Commissione Teologica Internazionale l’allora prefetto della Congregazione della fede, il Cardinal Franjo Šeper: “Voi teologi –disse sorridendo- non avete finito di scrivere qualcosa che subito vi mettete sopra il vostro nome e cognome. Noi della Curia dobbiamo fare tutto anonimamente”. È una qualità del servizio evangelico che è motivo per me di ammirazione e gratitudine per i tanti servitori della Chiesa che lavorano nella Curia romana, nelle Curie vescovili e nelle Nunziature.

Lo spirito del servizio

Torniamo al tema. Dobbiamo approfondire cosa significa “servizio”, per poterlo realizzare nella nostra vita e non fermarci alle parole. Il servizio non è, in se stesso, una virtù. In nessun catalogo delle virtù o dei frutti dello Spirito, come le chiama il Nuovo Testamento, si incontra la parola diakonía, servizio. Si parla, anzi, perfino di un servizio al peccato (cf Rm 6, 16) o agli idoli (cf 1 Cor 6, 9) che non è certamente un servizio buono. Per sé, il servizio è una cosa neutra: indica una condizione di vita, o un modo di rapportarsi agli altri nel proprio lavoro, un essere alle dipendenze di altri. Può essere, addirittura, una cosa negativa, se fatta per costrizione (come nella schiavitù), o solo per interesse.

Tutti oggi parlano di servizio; tutti dicono di essere a servizio: il commerciante serve i clienti; di chiunque esercita una mansione nella società, si dice che presta servizio, o che è di servizio. Ma è evidente che il servizio di cui parla il Vangelo è tutt’altra cosa, anche se non esclude di per sé, né squalifica necessariamente il servizio come è inteso dal mondo. La differenza è tutta nelle motivazioni e nell’atteggiamento interiore con cui il servizio è fatto.

Rileggiamo il racconto della lavanda dei piedi, per vedere con che spirito la compie Gesù e da che cosa è mosso: “Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13, 1). Il servizio non è una virtù, ma scaturisce dalle virtù e, in primo luogo, dalla carità; è, anzi, l’espressione più grande del comandamento nuovo. Il servizio è un modo di manifestarsi dell’agápe, cioè di quell’amore che “non cerca il proprio interesse” (cf 1 Cor 13, 5), ma quello degli altri, che non è fatto solo di ricerca, ma anche di donazione. È, insomma, una partecipazione e un’imitazione dell’agire di Dio che, essendo “il Bene, tutto il Bene, il Sommo Bene”, non può amare e beneficare che gratuitamente, senza alcun proprio interesse.

Per questo, il servizio evangelico, all’opposto di quello del mondo, non è proprio dell’inferiore, del bisognoso, di chi non ha; ma è proprio, piuttosto, di chi possiede, di chi è posto in alto, di chi ha. “A colui cui fu dato molto, molto sarà chiesto”, in fatto di servizio (cf Lc 12, 48). Per questo, Gesù dice che, nella sua Chiesa, è soprattutto “chi governa” che deve essere “come colui che serve” (Lc 22, 26), chi è “il primo” deve essere “il servo di tutti” (Mc 10, 44). La lavanda dei piedi –diceva il mio professore di esegesi a Friburgo, Ceslas Spicq – è “il sacramento dell’autorità cristiana”.

Accanto alla gratuità, il servizio esprime un’altra grande caratteristica dell’agápe divina: l’umiltà. Le parole di Gesù: “Dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”, significano: dovete rendervi a vicenda i servizi di un’umile carità. Carità e umiltà, insieme, formano il servizio evangelico. Gesù ha detto una volta: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11, 29). Ma, a pensarci bene, che cosa ha fatto Gesù per definirsi “umile”? Forse che ha sentito bassamente di sé, o ha parlato in modo dimesso della sua persona? Al contrario, nell’episodio stesso della lavanda dei piedi, egli dice di essere “Maestro e Signore” (cf Gv 13, 13).

Che cosa dunque ha fatto per definirsi “umile”? Si è abbassato, è disceso per servire! Dal momento dell’incarnazione, non ha fatto altro che discendere, discendere, fino a quel punto estremo, quando lo vediamo in ginocchio, in atto di lavare i piedi agli apostoli. Che fremito dovette correre fra gli angeli, al vedere in tale abbassamento il Figlio di Dio, sul quale essi non osano neppure fissare lo sguardo (cf 1 Pt 1, 12). Il Creatore è in ginocchio di fronte alla creatura! “Arrossisci, superba cenere: Dio si abbassa e tu ti innalzi!”, diceva a se stesso san Bernardo .Così intesa – cioè come un abbassarsi per servire – l’umiltà è davvero la via regia per somigliare a Dio e per imitare l’Eucaristia nella nostra vita.

Discernimento degli spiriti

Il frutto di questa meditazione dovrebbe essere una revisione coraggiosa della nostra vita: abitudini, mansioni, orari di lavoro, distribuzione e impiego del tempo, per vedere se essa è realmente un servizio e se, in questo servizio, c’è amore e umiltà. Il punto fondamentale è sapere se noi serviamo i fratelli, o invece ci serviamo dei fratelli. Si serve dei fratelli e li strumentalizza colui che, magari, si fa in quattro per gli altri, come si suol dire, ma in tutto ciò che fa non è disinteressato, cerca, in qualche modo, l’approvazione, il plauso oppure la soddisfazione di sentirsi, nel suo intimo, a posto e benefattore. Il Vangelo presenta, su questo punto, esigenze di una radicalità estrema: “Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra” (Mt 6, 3). Tutto ciò che è fatto, coscientemente e a ragion veduta, “per essere visti dagli uomini”, è perso. “Christus non sibi placuit”: Cristo non cercò di compiacere se stesso! (Rm 15, 3): questa è la regola del servizio.

Per fare il “discernimento degli spiriti”, cioè delle intenzioni che ci muovono nel nostro servizio, è utile vedere quali sono i servizi che facciamo volentieri e quelli che cerchiamo di scansare in tutti modi. Vedere, inoltre, se il nostro cuore è pronto ad abbandonare – qualora ci venga richiesto – un servizio nobile, che dà lustro, per uno umile che nessuno apprezzerà. I servizi più sicuri sono quelli che facciamo senza che nessuno – neppure chi lo riceve – se ne accorga, ma solo il Padre che vede nel segreto. Gesù ha elevato a simbolo del servizio uno dei gesti più umili che si conoscessero al suo tempo e che era affidato, di solito, agli schiavi: il lavare i piedi. San Paolo esorta: “Non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili” (Rm 12, 16).

Allo spirito di servizio si oppone la brama di dominio, l’abitudine a imporre agli altri la propria volontà e il proprio modo di vedere o di fare le cose. Insomma, l’autoritarismo. Spesso chi è tiranneggiato da queste disposizioni non si rende minimamente conto delle sofferenze che provoca e si stupisce, anzi, nel vedere che gli altri non mostrano di apprezzare tutto il suo “interessamento” e i suoi sforzi e si sente persino vittima. Gesù ha detto ai suoi apostoli di essere come “agnelli in mezzo a lupi”, ma costoro sono, al contrario, lupi in mezzo ad agnelli. Una grande parte delle sofferenze che talvolta affliggono una famiglia o una comunità è dovuta all’esistenza in esse di qualche spirito autoritario e dispotico che calpesta gli altri e che, con il pretesto di “servire” gli altri, in realtà “asserve” gli altri.

È possibilissimo che questo “qualcuno” siamo proprio noi! Se ci viene un piccolo dubbio in questo senso, sarebbe buona cosa che interrogassimo sinceramente chi ci vive accanto e dessimo loro la possibilità di esprimersi senza timore. Se risulta che anche noi rendiamo la vita difficile, con il nostro carattere, a qualcuno, dobbiamo accettare con umiltà la realtà e ripensare il nostro servizio.

Allo spirito di servizio si oppone anche, per altro verso, l’attaccamento esagerato alle proprie abitudini e comodità. Insomma lo spirito di mollezza. Non può servire seriamente gli altri chi è sempre intento ad accontentare se stesso, chi fa un idolo del proprio riposo, del proprio tempo libero, del proprio orario. La regola del servizio resta sempre la stessa: Cristo non cercò di compiacere se stesso.

Il servizio, abbiamo visto, è la virtù propria di chi presiede, è la cosa che Gesù ha lasciato ai pastori della Chiesa, come la sua eredità più cara. Tutti i carismi sono in funzione del servizio; ma in modo tutto particolare lo è il carisma di “pastori e maestri” (cf Ef 4, 11), cioè il carisma dell’autorità. La Chiesa è “carismatica” per servire ed è anche “gerarchica” per servire!

Il servizio dello Spirito

Se per tutti i cristiani servire significa “non vivere più per se stessi” (cf 2 Cor 5, 15), per i pastori significa: “non pascere se stessi”: “Guai ai pastori d’Israele che pascono se stessi! I pastori non devono forse pascere il gregge?” (Ez 34, 2). Per il mondo, niente è più naturale e giusto di questo, che, cioè, chi è signore (dominus) “domini”, faccia da padrone. Tra i discepoli di Gesù, però, “non così”, ma chi è signore deve servire. “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede – scrive san Paolo –; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1, 24). La stessa cosa raccomanda ai pastori l’apostolo Pietro: “Non spadroneggiate sulle persone a voi affidate, ma fatevi modelli del gregge” (cf 1 Pt 5, 3).

Non è facile, nel ministero pastorale, evitare la mentalità del padrone della fede; essa si è inserita molto presto nella concezione dell’autorità. In uno dei più antichi documenti sul ministero episcopale (la Didascalia Siriaca) troviamo già una concezione che presenta il vescovo come il monarca, nella cui Chiesa nulla può essere intrapreso, né dagli uomini né da Dio, senza passare attraverso di lui.

Per i pastori, e in quanto pastori, è spesso su questo punto che si decide il problema della conversione. Come risuonano forti e accorate quelle parole di Gesù dopo la lavanda dei piedi: “Io il Signore e il Maestro…!”. Gesù “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio” (Fil 2, 6), cioè non ebbe paura di compromettere la sua dignità divina, di favorire la mancanza di rispetto da parte degli uomini, spogliandosi dei suoi privilegi e mostrandosi all’esterno un uomo in mezzo agli altri uomini (“simile agli uomini”).

Gesù ha vissuto semplicemente. La semplicità è stata sempre l’inizio e il segno di un vero ritorno al Vangelo. Bisogna imitare l’agire di Dio. Non c’è nulla – scriveva Tertulliano – che caratterizza meglio l’agire di Dio, quanto il contrasto tra la semplicità dei mezzi e dei modi esterni con cui opera e la grandiosità degli effetti spirituali che ottiene . Il mondo ha bisogno di grossi apparati per agire e per impressionare; Dio no.

C’è stata un’epoca in cui la dignità dei vescovi si esprimeva in insegne, titoli, castelli, eserciti. Erano, come si dice, vescovi-principi, ma assai più principi che vescovi. La Chiesa vive oggi, su questo punto, un’epoca che, al confronto, ci appare d’oro. Ho conosciuto molti anni fa un vescovo che trovava naturale trascorrere ogni settimana qualche ora in una casa di riposo, per aiutare gli anziani a vestirsi e a mangiare. Aveva preso alla lettera la lavanda dei piedi. Io stesso devo dire di aver ricevuto da alcuni prelati i migliori esempi di semplicità della mia vita.

Occorre però conservare, anche su questo punto, una grande libertà evangelica. La semplicità esige che non ci mettiamo al di sopra degli altri, ma neppure, sempre e ostinatamente, al di sotto, per mantenere, in un modo o nell’altro, le distanze, ma che accettiamo, nelle cose ordinarie della vita, di essere come gli altri. Ci sono persone – nota acutamente il Manzoni – che, di umiltà, ne hanno quanta ne bisogna per mettersi al di sotto della buona gente, ma non per star loro in pari .

A volte, il servizio migliore non consiste nel servire, ma nel lasciarsi servire, come Gesù che, all’occasione, sapeva anche stare a tavola e farsi lavare i piedi (cf Lc 7, 38) e che, di buon grado, accettava i servizi che gli rendevano, durante i suoi viaggi, alcune donne generose e affezionate (cf Lc 8, 2-3).

C’è un’altra cosa che bisogna dire a proposito del servizio dei pastori, ed è questa: il servizio dei fratelli, per quanto importante e santo, non è la prima cosa e non è l’essenziale; prima c’è il servizio di Dio. Gesù è anzitutto il “Servo di Jahvè” e poi anche il servo degli uomini. Agli stessi genitori ricorda questo, dicendo: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2, 49). Egli non esitava a deludere le folle, venute per ascoltarlo e per farsi guarire, lasciandole improvvisamente, per ritirarsi in luoghi solitari a pregare (cf Lc 5, 16).

Anche il servizio evangelico è insidiato oggi dal pericolo della secolarizzazione. Si dà troppo facilmente per scontato che ogni servizio reso all’uomo è servizio di Dio. San Paolo parla di un servizio dello Spirito (diakonía Pneumatos) (2 Cor 3, 8), al quale servizio sono destinati i ministri del Nuovo Testamento. Lo spirito di servizio si deve esprimere, nei pastori, attraverso il servizio dello Spirito!

Chi, come il sacerdote, è, per vocazione, chiamato a tale servizio “spirituale”, non serve i fratelli se rende loro cento o mille altri servizi, ma trascura quell’unico che si ha diritto di aspettarsi da lui e che lui solo può dare. È scritto che il sacerdote “viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio” (Eb 5, 1). Quando sorse per la prima volta questo problema nella Chiesa, Pietro lo risolse dicendo: “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense… Noi ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della Parola” (At 6, 2-4).

Ci sono dei pastori che sono, di fatto, ritornati al servizio delle mense. Si occupano di ogni sorta di problemi materiali, economici, amministrativi, talvolta perfino agricoli, che esistono nella loro comunità (anche quando si potrebbero benissimo lasciarli fare da altri), e trascurano il loro vero, insostituibile servizio. Il servizio della Parola esige ore di lettura, studio, preghiera.

Subito dopo aver spiegato agli apostoli il significato della lavanda dei piedi, Gesù disse loro: “Sapendo queste cose sarete beati se le metterete in pratica” (Gv 13, 17). Anche noi saremo beati, se non ci accontenteremo di sapere queste cose – e cioè che l’Eucaristia ci spinge al servizio e alla condivisione –, ma le metteremo in pratica, possibilmente a cominciare da oggi stesso. L’Eucaristia non è solo un mistero da consacrare, da ricevere e da adorare; è anche un mistero da imitare.

Dobbiamo però, prima di concludere, richiamare una verità che abbiamo sottolineato in tutte le nostre riflessioni sull’Eucaristia, e cioè l’azione dello Spirito Santo! Guardiamoci dal ridurre il dono al dovere! Noi non abbiamo ricevuto soltanto il comando di lavarci i piedi e di servirci: abbiamo ricevuto la grazia di poterlo fare. Il servizio è un carisma e come tutti i carismi esso è “una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” (1 Cor 12, 7); “Ciascuno viva secondo il dono (charisma!) ricevuto, mettendolo a servizio degli altri”, dice l’apostolo Pietro nella sua Prima Lettera (1 Pt 4,10). Il dono precede il dovere e ne rende possibile il compimento. E’ questa “la buona notizia” – il Vangelo – di cui l’Eucaristia è la consolante memoria quotidiana.

Santo Padre, venerabili padri, fratelli e sorelle, grazie del benevolo ascolto e i miei più vivi auguri per una buona Settimana Santa e una felice Pasqua!

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