Seconda Predica di Avvento del Cardinale Raniero Cantalamessa
Alle ore 9.00 di questa mattina, nell’Aula Paolo VI, alla presenza del Santo Padre Francesco, il Predicatore della Casa Pontificia, Em.mo Card. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., ha tenuto la seconda e ultima Predica di Avvento sul tema: “Preparate le vie del Signore”. Verso il Natale in compagnia del Precursore e della Madre di Cristo.
Dopo il Precursore Giovanni Battista, oggi ci facciamo prendere per mano dalla Madre di Gesù per “entrare” nel mistero del Natale. Nel Vangelo della scorsa Domenica, la Quarta di Avvento, abbiamo ascoltato il racconto dell’Annunciazione. Esso ci ricorda come Maria concepì e diede alla luce il Cristo e come possiamo concepirlo e darlo alla luce noi, e cioè mediante la fede! Riferendosi a questo momento, Elisabetta, di lì a poco esclamerà: “Beata colei che ha creduto” (Lc 1, 45).
Si è ripetuto, purtroppo, circa la fede di Maria, quello che era avvenuto con la persona di Gesù. Siccome gli eretici ariani cercavano ogni pretesto per mettere in dubbio la piena divinità di Cristo, per togliere loro ogni appiglio, i Padri diedero a volte una spiegazione “pedagogica” di tutti quei testi del Vangelo che sembravano ammettere un progresso di Gesù nella conoscenza della volontà del Padre e nell’obbedienza ad essa. Uno di questi testi era quello della Lettera agli Ebrei, secondo cui Gesù “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8), un altro la preghiera di Gesù nel Getsemani. In Gesù, tutto doveva essere dato e perfetto in partenza. Da buoni Greci, pensavano che il divenire non può incidere sull’essere delle cose.
Qualcosa di simile, dicevo, si è ripetuto, tacitamente, per la fede di Maria. Si dava per scontato che lei avesse compiuto il suo atto di fede al momento dell’Annunciazione e in esso fosse rimasta stabile per tutta la vita, come chi, con la sua voce, ha raggiunto di slancio la nota più acuta e la mantiene poi interrottamente per tutto il resto del canto. Si dava una spiegazione rassicurante di tutte le parole che sembravano dire il contrario.
Il dono che lo Spirito Santo ha fatto alla Chiesa, con il rinnovamento della Mariologia, è stato la scoperta di una dimensione nuova della fede di Maria. La Madre di Dio – ha affermato il Concilio Vaticano II – ”avanzò nella peregrinazione della fede” (LG, 58). Non ha creduto una volta per tutte, ma ha camminato nella fede e progredito in essa. L’affermazione è stata ripresa e resa più esplicita da san Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Mater:
Le parole di Elisabetta: “E beata colei che ha creduto” non si applicano solo a quel particolare momento dell’annunciazione. Certamente questa rappresenta il momento culminante della fede di Maria in attesa di Cristo, ma è anche il punto di partenza, da cui inizia tutto il suo itinerario verso Dio, tutto il suo cammino di fede. (RM, 14).
In questo cammino Maria è giunta, scriveva il papa, fino alla “notte della fede” (RM, 18). Sono note e spesso ripetute le parole di sant’Agostino sulla fede di Maria:
“La Vergine Maria partorì credendo, quel che aveva concepito credendo (“quem credendo peperit, credendo concepit”)…. Dopo che l’angelo ebbe parla¬to, ella, piena di fede, concependo Cristo prima nel cuore che nel grembo, rispose: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola”.
Dobbiamo completare la lista con quello che accadde dopo l’Annunciazione e il Natale: per fede Maria presentò il Bambino al tempio, per fede lo seguì, tenendosi in disparte, nella sua vita pubblica, per fede stette sotto la croce, per fede attese la sua risurrezione.
Riflettiamo su alcuni momenti del cammino di fede della Madre di Dio. Ci sono fatti apparentemente contrastanti che Maria confronta dentro di sé, senza comprendere. È “il Figlio di Dio” e giace in una mangiatoia! Lei conserva tutto nel suo cuore e lascia che fermenti nell’attesa. Sentirà la profezia di Simeone e presto si accorgerà di quanto fosse vera! Tutti gli alti e bassi della vita del figlio, tutte le incomprensioni, le progressive diserzioni intorno a lui, hanno avuto una profonda ripercussione nel suo cuore di Madre. Incomincia a farne esperienza dolorosa nello smarrimento di Gesù al tempio: “Disse loro: ‘Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?’ Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro” (Lc 2,49-50).
Infine c’è la croce. È là, impotente davanti al martirio del figlio, ma acconsente all’amore. È una replica del dramma di Abramo, ma quanto immensamente più esigente! Con Abramo Dio si ferma all’ultimo momento, con lei no. Accetta che il figlio sia immolato, lo consegna al Padre, col cuore affranto, ma in piedi, forte della sua fede incrollabile. È qui che la voce di Maria tocca la nota più alta. Di Maria si deve dire con ben maggiore ragione ciò che l’Apostolo dice di Abramo: Maria credette, sperando contro ogni speranza, e così divenne madre di molti popoli (Rm 4,18).
C’è stato un tempo in cui la grandezza di Maria era vista soprattutto nei privilegi che si faceva a gara nel moltiplicare, con il risultato di distanziarla, anziché “associarla”, a Cristo, il quale si era fatto “in tutto simile a noi”, nulla escluso, neppure la tentazione, ma solo il peccato. Il Concilio ci ha orientato a vedere la sua grandezza soprattutto nella sua fede, speranza e carità. Dice la Lumen gentium:
Conce¬pendo Cristo, generandolo, nutrendolo, presentandolo al Padre nel tempio, soffrendo col Figlio suo morente in croce, ella co¬operò in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, con l’ob¬bedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è diventata per noi madre nell’ordine della grazia (LG, 61).
“Crediamo anche noi!”
Il rinnovamento della Mariologia operato dal Vaticano II deve molto (forse l’essenziale) a sant’Agostino. Fu la sua autorità che spinse alcuni teologi e poi l’assemblea conciliare a inserire il discorso su Maria all’interno della costituzione sulla Chiesa, la Lumen gentium, anziché fare su di lei un discorso a parte. Partendo dal principio che “il tutto è superiore a una parte”, Agostino aveva scritto:
Santa è Maria, beata è Maria, ma più importante è la Chiesa che non la Vergine Maria. Perché? Perché Maria è una parte della Chiesa, un membro santo, eccellente, superiore a tutti gli altri, ma tutta¬via un membro di tutto il corpo. Se è un membro di tutto il corpo, senza dubbio più importante d’un membro è il corpo .
Adesso è lo stesso sant’Agostino a suggerirci, la risoluzione da prendere dopo aver ripercorso a brevi tratti il cammino di fede della Madre di Dio. Alla fine del suo discorso sulla fede di Maria, egli rivolge ai suoi ascoltatori una vibrante esortazione che vale anche per noi: “Maria credette, e in lei quel che credette si avverò. Crediamo anche noi, perché quel che si avverò in lei possa giovare anche a noi!” .
Il Quarto centenario della nascita di Blaise Pascal – che il Santo Padre ha voluto ricordare alla Chiesa con la sua Lettera Apostolica del 19 Giugno scorso – ci aiuta a dare un contenuto attuale all’esortazione: “Crediamo anche a noi”. Tra i “Pensieri” più famosi di Pascal c’è il seguente:
Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît point. Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce […]C’est le coeur qui sent Dieu et non la raison. Il cuore, e non la ragione, sente Dio. Ecco cos’è la fede: Dio sentito dal cuore e non dalla ragione
Questa affermazione è ardita, ma ha il più autorevole fondamento possibile, quello della Sacra Scrittura! L’apostolo Paolo conosce e usa spesso la parola nous, che corrisponde al moderno concetto di mente, intelligenza o ragione; ma, parlando della fede, non dice “mente creditur”, con la mente si crede; dice corde creditur (kardia gar pisteùetai), con il cuore si crede (Rom 10, 19).
Dio “è sentito dal cuore e non dalla ragione”, come dice Pascal, per il semplice motivo che “Dio è amore” e l’amore non si percepisce con l’intelletto, ma con il cuore. È vero che Dio è anche verità (“Dio è luce”, scrive Giovanni nella stessa sua Prima Lettera) e la verità si percepisce con l’intelletto; ma mentre l’amore suppone la conoscenza, la conoscenza non suppone necessariamente l’amore. Non si può amare senza conoscere, ma si può conoscere senza amare! Lo sa bene una civiltà come la nostra, orgogliosa di aver inventato l’intelligenza artificiale, ma così povera di amore e di compassione.
Non sono, purtroppo, “le ragioni del cuore” di Pascal che hanno plasmato il pensare laico e teologico degli ultimi tre secoli, ma piuttosto il “penso, perciò esisto” (cogito ergo sum) del suo compatriota Cartesio, anche se contro l’intenzione di quest’ultimo che era e rimase sempre un pio cristiano e un credente. (Ricordo di aver letto il suo nome nella lista dei pellegrini famosi al santuario della Madonna di Loreto).
La conseguenza è stata che il razionalismo ha dominato e dettato legge, prima di approdare all’attuale nichilismo. Tutti i discorsi e i dibattiti che si fanno, anche oggi, vertono su “Fede e Ragione”, mai, che io sappia, su “Fede e cuore”, o “Fede e volontà”. Lo stesso Pascal, tuttavia, in un altro suo pensiero, dice che la fede è abbastanza chiara per chi vuole credere, e abbastanza oscura per chi non vuole credere . Essa, in altre parole, è una questione di volontà, più che di ragione e intelletto.
Vorrei, a questo punto, accennare a una seconda lezione lasciataci da Pascal e che il Santo Padre mette fortemente in luce nella sua Lettera Apostolica: la centralità di Cristo per la fede cristiana: “Conosciamo Dio – scrive il filosofo – solo per mezzo di Gesù Cristo. Senza questo mediatore è esclusa ogni comunicazione con Dio” . E nel cosiddetto Memoriale, eco di una memorabile notte di luce, egli esclama: “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti…Lo si trova soltanto per le vie insegnate dal Vangelo”
Pascal è spesso citato a proposito del “rischio calcolato”, o della scommessa vantaggiosa. Nell’incertezza, scrive, scommetti sull’esistenza di Dio, perché “se vinci hai vinto tutto, se perdi, non hai perso nulla”: “Si vous gagnez, vous gagnez tout ; si vous perdez, vous ne perdez rien” . Ma il vero rischio della fede – anche lui lo sa – è un altro: è quello di mettere tra parentesi Gesú Cristo. Un rischio di lunga data! Ripensiamo a quello che avvenne ad Atene, in occasione del memorabile discorso tenuto dall’apostolo Paolo all’Areopago (Atti 17,16-33).
L’Apostolo comincia parlando del Dio unico che ha creato l’universo e di cui “noi stessi siamo progenie”. I presenti colgono l’allusione al verso di un loro poeta e lo seguono con attenzione. Ma ecco che Paolo arriva al punto. Parla di un uomo che Dio ha designato come giudice universale, dandone prova con il risuscitarlo dai morti. Finito l’incantesimo! “Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano:’Su questo ti sentiremo un’altra volta’ ” (At 17, 32).
Che cosa li ha tanto disturbati? Certo, l’idea della risurrezione dai morti, così contraria a quello che, nello stesso luogo, aveva insegnato Platone: il corpo è “la tomba dell’anima”, non vale, perciò, la pena di portarselo dietro anche dopo la morte. Ma forse ancora di più li ha sconcertati il fatto di far dipendere il destino dell’umanità da un singolo evento storico e da un uomo concreto. Un secolo dopo, il filosofo platonico Celso getterà in faccia ai cristiani i motivi dello scandalo dei greci: “Figlio di Dio un uomo vissuto pochi anni fa? Uno di ieri o avantieri ? Un uomo nato in un borgo della Giudea da una povera filatrice?” .
Il vero rischio della fede è quello di scandalizzarsi dell’umanità e umiltà di Cristo. Fu lo scoglio maggiore che Agostino dovette superare per aderire alla fede: “Non essendo umile, non riuscivo ad accettare come mio Dio l’umile Gesù”, scrive nelle Confessioni . Gesú aveva parlato della possibilità di “scandalizzarsi” di lui, a motivo della sua distanza dall’idea che gli uomini si erano fatti del Messia, e aveva concluso dicendo: “Beato è colui che non trova in me motivo di scandalo” (Mt 11,2-6).
Lo scandalo è oggi meno ostentato di quello degli areopagiti, ma non meno presente tra gli intellettuali. L’effetto – più dannoso del rifiuto – è il silenzio su di lui. Ho seguito, in Internet, molti dibattiti ad alto livello sull’esistenza o meno di Dio: quasi mai in essi veniva pronunciato il nome di Gesú Cristo. Come se egli non rientrasse nel discorso su Dio!
Deve essere questo il nostro impegno principale nello sforzo per l’evangelizzazione. Il mondo e i suoi media –dicevo in altra occasione in questo stesso luogo – fanno del tutto (e purtroppo ci riescono!) per tenere separato, o taciuto, il nome di Cristo in ogni loro discorso sulla Chiesa. Noi dobbiamo fare del tutto per tenerlo ostinatamente presente. Non per ripararci dietro di esso e tacere dei nostri fallimenti, ma perché è lui “la luce delle genti”, il “nome che è al disopra di ogni altro nome”, “la pietra angolare” del mondo e della storia.
Tornare al cuore!
Torniamo, per finire, alla parola di Pascal su Dio che “si sente con il cuore”. Non più per farne oggetto di considerazioni storiche e teologiche, ma personali e pratiche. Pascal fu un fervente discepolo di sant’Agostino, fino, purtroppo, a condividerne anche qualche eccesso ed errore, come quello, rilanciato dagli Giansenisti, della duplice predestinazione divina, alla gloria o alla dannazione! Anche l’appello di Pascal al cuore risente (positivamente, questa volta) dell’influenza del dottore d’Ippona. Commentando il versetto di Isaia: “Tornate, o prevaricatori, al cuore (redite, praevaricatores ad cor)” (Is 46, 8, Volgata), in un discorso al popolo sant’Agostino diceva:
Rientrate nel vostro cuore!… Rientrate dal vostro vagabondaggio che vi ha portato fuori strada; ritornate al Signore. Egli è pronto. Prima rientra nel tuo cuore, tu che sei diventato estraneo a te stesso, a forza di vagabondare fuori: non conosci te stesso, e cerchi colui che ti ha creato! Torna, torna al cuore, distaccati dal corpo… Rientra nel cuore: lì esamina quel che forse percepisci di Dio, perché lì si trova l’immagine di Dio; nell’interiorità dell’uomo abita Cristo .
L’uomo invia le sue sonde fino alla periferia del sistema solare ed oltre, ma ignora quello che avviene poche migliaia di metri sotto la crosta terrestre, da cui la difficoltà di prevenire i terremoti. È una immagine di quello che avviene anche nell’ambito dello spirito, nella nostra stessa vita. Viviamo tutti proiettati all’esterno, a quello che avviene intorno a noi, disattenti a ciò che avviene dentro di noi. Il silenzio fa paura.
Greccio 1223
Nel Natale di quest’anno ricorre l’ottavo centenario della prima realizzazione del presepio a Greccio. È il primo dei tre centenari francescani, Ad esso seguirà, nel 2024, quello delle Stimmate del santo e, nel 2026, quello della sua morte. Anche questa circostanza ci può aiutare a ritornare al cuore. Il suo primo biografo, Tommaso da Celano, riporta le parole con cui il Poverello spiegava la sua iniziativa: “Vorrei, diceva, rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva tra il bue e l’asinello” .
Purtroppo, con il passare del tempo, il presepio si è allontanato da quello che esso rappresentava per Francesco. È diventato spesso una forma d’arte o di spettacolo di cui si ammira l’allestimento esterno, più che il significato mistico. Anche così, tuttavia, esso assolve la sua funzione di segno e sarebbe stolto rinunciarvi. Nel nostro Occidente si moltiplicano le iniziative per eliminare dalle solennità natalizie ogni riferimento evangelico e religioso, riducendolo a una pura e semplice festa umana e familiare, con tante fiabe e personaggi inventati al posto dei personaggi veri del Natale. Qualcuno vorrebbe cambiare perfino il nome della festa.
Uno dei pretesti è di favorire, in questo modo, la convivenza pacifica con credenti di altre religioni, in pratica con gli islamici. In realtà questo è il pretesto di un certo mondo laicista che non vuole questi simboli, non dei musulmani. Nel Corano c’è una Sura dedicata alla nascita di Gesú che vale la pena conoscere. Dice:
Gli angeli dissero: “O Maria, Iddio ti dà la lieta novella di un Verbo da Lui. Il suo nome sarà Gesù [‘Isà] figlio di Maria. Sarà illustre in questo mondo e nell’altro… Parlerà agli uomini dalla culla e da uomo maturo, e sarà dei Santi”. Disse Maria: “Signore mio, come potrò avere un figlio, quando nessun uomo mi ha toccata?”. Rispose: “Proprio così: Iddio crea ciò che Egli vuole, e quando ha deciso una cosa, le dice soltanto ‘sii’, ed essa è.
Una volta, al tempo in cui, il sabato sera, spiegavo il Vangelo domenicale nella rubrica RAI “A Sua Immagine” , feci leggere questa Sura da un islamico che si disse felice di contribuire in tal modo a dissipare un equivoco che li danneggia, con il pretesto di favorirli. La venerazione con cui il Corano ricorda la nascita di Gesú e il posto che occupa in essa la vergine Maria ha avuto qualche anno fa un riconoscimento inatteso e clamoroso. L’emiro di Abu Dhabi ha deciso di dedicare a Mariam, Umm Eisa , ”Maria Madre di Gesú”, una bellissima moschea dell’emirato che prima portava il nome del suo fondatore, lo sceicco Mohammad Bin Zayed.
Il presepio è dunque una tradizione utile e bella, ma non possiamo accontentarci dei presepi esterni tradizionali. Dobbiamo allestire a Gesù un presepio diverso, un presepio del cuore. Corde creditur: con il cuore si crede. Christum habitare per fidem in cordibus vestris: che Cristo venga ad abitare mediante la fede nei vostri cuori (Ef 3,17), ci esorta l’Apostolo. Maria e il suo Sposo continuano, misticamente, a bussare alle porte, come fecero quella notte a Betlemme. Nell’Apocalisse è il Risorto in persona che dice: “Io sto alla porta e busso” (Ap 3,20). Apriamogli la porta del nostro cuore. Facciamo, di esso, una culla per Gesù Bambino. Che senta, nel gelo del mondo, il calore del nostro amore e della nostra infinita gratitudine di redenti!
Questa non è una bella e poetica finzione mentale; è l’impresa più ardua della vita. Nel nostro cuore c’è posto infatti per molti ospiti, ma per un solo padrone. Far nascere Gesú significa far morire il proprio “io”, o almeno rinnovare la decisione di non vivere più per noi stessi, ma per Colui che è nato, morto e risorto per noi” (cf. Rom 14, 7-9). “Dove nasce Dio, muore l’uomo”, ha affermato l’esistenzialismo ateo. È vero! Muore, però, l’uomo vecchio, corrotto e destinato, in ogni caso, a finire con la morte, e nasce l’uomo nuovo “creato nella giustizia e nella vera santità” (Ef 4,24), destinato alla vita eterna. È una impresa che non finirà con il Natale, ma può cominciare con esso.
Che la Madre di Dio che “concepì Cristo nel suo cuore prima che nel suo corpo” – ci aiuti a realizzare questo proposito.
Buon compleanno a Gesú! E a tutti voi – Santo e amato Padre papa Francesco, venerati Padri, fratelli e sorelle- Buon Natale!