Udienza di Papa Francesco all’Istituto Paolo VI di Brescia per il conferimento del “Premio Paolo VI” al Presidente Mattarella
Questa mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i membri dell’Istituto Paolo VI di Brescia, per il conferimento del “Premio Paolo VI” all’On. Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica Italiana.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto ai presenti nel corso della cerimonia:
Signor Presidente della Repubblica,
distinte Autorità civili e religiose,
gentili Signore e Signori,
cari fratelli e sorelle! Vi do il benvenuto e vi saluto cordialmente, felice per la vostra presenza. Sono lieto di consegnare al Presidente Sergio Mattarella il Premio Internazionale Paolo VI, che gli è stato attribuito dall’omonimo Istituto, al quale vorrei esprimere riconoscenza per il prezioso lavoro che svolge nella cura della memoria di Papa Montini: i suoi scritti e i suoi discorsi sono una miniera inesauribile di pensiero e testimoniano l’intensa vita spirituale da cui è sgorgata la sua azione di grande Pastore della Chiesa. Grazie dunque ai membri e ai collaboratori dell’Istituto, e grazie a quanti sono giunti dalla Diocesi di Brescia!
Il Concilio Vaticano II, per il quale dobbiamo essere tanto grati a San Paolo VI, ha sottolineato il ruolo dei fedeli laici, mettendone in luce il carattere secolare. I laici, infatti, in virtù del battesimo hanno una vera e propria missione, da svolgere «nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli gli impieghi e gli affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale» (Lumen gentium, 31). E tra queste occupazioni spicca la politica, che è la «forma più alta di carità» (Pio XI, Ai dirigenti della Federazione Universitaria Cattolica, 18 dic. 1927). Ma – ci possiamo chiedere – come fare dell’agire politico una forma di carità e, d’altra parte, come vivere la carità, cioè l’amore nel senso più alto, all’interno delle dinamiche politiche?
Credo che la risposta risieda in una parola: servizio. San Paolo VI disse che quanti esercitano il potere pubblico devono considerarsi «come i servitori dei loro compatrioti, con il disinteresse e l’integrità che convengono alla loro alta funzione» (Ai rappresentanti dell’Unione Europea dei Democratici Cristiani, 8 apr. 1972). E sentenziò: «Il dovere del servizio è inerente all’autorità; e tanto maggiore è tale dovere quanto più alta è tale autorità» (Udienza gen., 9 ott. 1968). Eppure, sappiamo bene quanto ciò non sia facile e come la tentazione diffusa, in ogni tempo, anche nei migliori sistemi politici, sia di servirsi dell’autorità anziché di servire attraverso l’autorità. Com’è facile salire sul piedistallo e com’è difficile calarsi nel servizio degli altri!
Cristo stesso parlò della difficoltà a servire e prodigarsi per gli altri, ammettendo, con un realismo velato di tristezza, che «coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono». Ma subito disse ai suoi: «Tra voi però non è così, ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore» (Mc 10,42-43). Da allora in poi, per il cristiano, grandezza è sinonimo di servizio. Amo dire che “non serve per vivere chi non vive per servire”. E credo che oggi il conferimento del Premio Paolo VI al Presidente Mattarella sia proprio una bella occasione per celebrare il valore e la dignità del servizio, lo stile più alto del vivere, che pone gli altri prima delle proprie aspettative.
Che ciò sia vero per Lei, Signor Presidente, lo testimonia il popolo italiano, che non dimentica la sua rinuncia al meritato riposo fatta in nome del servizio richiestole dallo Stato. Una settimana fa ha voluto omaggiare, in occasione dei 150 anni dalla morte, quel grande italiano e cristiano che fu Alessandro Manzoni, capace di intessere con le parole la pregiata stoffa di valori sociali, religiosi e solidali del popolo italiano. Paolo VI lo definì «genio universale», «tesoro inesauribile di sapienza morale», «maestro di vita» (Regina caeli, 20 mag. 1973). Anch’io custodisco nel cuore tanti suoi personaggi. Penso al sarto, che racconta la buona laboriosità di chi concepisce la vita come il tempo dato al singolo per accrescere il bene altrui, per «industriarsi, aiutarsi, e poi esser contenti» (I promessi sposi, cap. XXIV). E con questo lavoro è riuscito ad esprimere uno dei passi più sapienti: «Non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene» (ibid.). Perché servire crea gioia e fa bene anzitutto a chi serve. Per dirla ancora con il Manzoni: «Si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio» (cap. XXVIII).
Ma il servizio rischia di restare un ideale piuttosto astratto senza una seconda parola che non può mai esserle disgiunta: responsabilità. Essa, come indica la parola stessa, è l’abilità di offrire risposte, facendo leva sul proprio impegno, senza aspettare che siano altri a darle. Quante volte, Signor Presidente, prima con l’esempio che con le parole, Lei lo ha richiamato! Anche in questo non si può che notare una feconda affinità con Giovanni Battista Montini, che fin da giovane prete fu “educatore di responsabilità”. Da Papa, poi, scrisse che le parole servono a poco «se non sono accompagnate in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 mag. 1971, 48). Perché, spiegava, «è troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria innanzi tutto la conversione personale» (ivi, 48). Sono parole che mi sembrano molto attuali oggi, quando viene quasi automatico colpevolizzare gli altri, mentre la passione per l’insieme si affievolisce e l’impegno comune rischia di eclissarsi davanti ai bisogni dell’individuo; dove, in un clima d’incertezza, la diffidenza si trasforma facilmente in indifferenza. La responsabilità, invece, come ci mostrano in questi giorni tanti cittadini dell’Emilia Romagna, chiama ciascuno ad andare contro-corrente rispetto al clima di disfattismo e lamentela, per sentire proprie le necessità altrui e riscoprire sé stessi come parti insostituibili dell’unico tessuto sociale e umano a cui tutti apparteniamo.
Sempre a proposito di responsabilità, penso a quella componente essenziale del vivere comune che è l’impegno per la legalità. Essa richiede lotta ed esempio, determinazione e memoria, memoria di quanti hanno sacrificato la vita per la giustizia; penso a suo fratello Piersanti, Signor Presidente, e alle vittime della strage mafiosa di Capaci, di cui pochi giorni fa si è commemorato il trentennale. San Paolo VI notava che nelle società democratiche non mancano istituzioni, patti e statuti, ma «manca tante volte l’osservanza libera ed onesta della legalità» e che lì «l’egoismo collettivo insorge» (Angelus, 31 ag. 1975). Anche in quest’ambito, Signor Presidente, con le sue parole e il suo esempio, avvalorati da quanto ha vissuto, Lei rappresenta un coerente maestro di responsabilità.
San Paolo VI sentì l’importanza della responsabilità di ciascuno per il mondo di tutti, per un mondo diventato globale. Lo fece parlando di pace – quanto è urgente oggi! –, lo fece esortando a lottare senza rassegnarsi di fronte agli squilibri delle ingiustizie planetarie, perché la questione sociale è questione morale e perché un’azione solidale dopo le guerre mondiali è veramente tale solo se è globale (cfr Lett. enc. Populorum progressio, 26 marzo 1967, 1). Oltre cinquant’anni fa, avvertì l’urgenza di fronteggiare le sfide climatiche, davanti alla minaccia di un ambiente che – scrisse – sarebbe diventato intollerabile all’uomo in conseguenza della distruttiva attività dell’uomo stesso che, spadroneggiando sul creato, si sarebbe trovato a non padroneggiarlo più. E precisò: «A queste nuove prospettive il cristiano deve dedicare la sua attenzione, per assumere, insieme con gli altri uomini, la responsabilità di un destino diventato ormai comune» (Octogesima adveniens, 21).
Sì, il senso di responsabilità e lo spirito di servizio stavano per San Paolo VI alla base della costruzione della vita sociale. Egli ci ha lasciato l’impegnativa eredità di edificare comunità solidali. Era il suo sogno, che si scontrò con vari incubi diventati realtà – penso alla terribile vicenda di Aldo Moro; era il desiderio ardente che portava nel cuore e che espresse nei termini di «comunità di partecipazione e di vita», animate dall’impegno a «prodigarsi per costruire solidarietà attive e vissute» (ivi, 47). Non sono utopie, ma profezie; profezie che esortano a vivere ideali alti. Perché di questo oggi hanno bisogno i giovani. E sono lieto, Signor Presidente, di farmi strumento di riconoscenza a nome di quanti, giovani e meno giovani, vedono in Lei un maestro, un maestro semplice, e soprattutto un testimone coerente e garbato di servizio e di responsabilità. Ne sarebbe lieto Papa Montini, del quale mi piace ripetere, infine, alcune parole tanto note quanto vere: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 41). Grazie.