Card. Zuppi: “Non c’è democrazia senza un ‘noi”
Pubblichiamo il saluto del Card. Matteo Zuppi, Presidente della CEI, alla cerimonia di apertura della 50ª Settimana Sociale dei Cattolici in Italia.
Ringrazio il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per la sua presenza che onora questa Settimana e lo ringrazio per il suo servizio di custode e garante della democrazia e dei valori della nostra Repubblica e dell’Europa. Rivolgo un saluto al Presidente della Regione Autonoma del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, al quale va il nostro grazie per l’accoglienza e la disponibilità. Saluto la città di Trieste, con le Autorità civili e religiose – il Prefetto Pietro Signoriello, il Sindaco Roberto Dipiazza e il Vescovo Enrico Trevisi – i rappresentanti delle Chiese e delle Comunità religiose. Rivolgo un caro benvenuto a tutti i partecipanti alla 50ª Settimana Sociale dei cattolici in Italia.
Siamo molto contenti di questo prestigioso traguardo. Dal 1907 a oggi il cattolicesimo italiano non è rimasto a guardare, non si è chiuso in sacrestia, non si è fatto ridurre a un intimismo individualista o al culto del benessere individuale, ma ha sentito come propri i temi sociali, si è lasciato ferire da questi per progredire verso un ordine sociale e politico la cui anima sia la carità sociale (FT 180). Ha pensato e operato non per sé ma per il bene comune del popolo italiano. E il bene comune non è quello che vale di meno, ma è quello più prezioso proprio perché l’unico di cui tutti hanno bisogno e che dona valore a quello personale. Questa è la bellezza della Chiesa cattolica, con i suoi limiti e miserie umane, ma che, come diceva De Lubac, “presenta un carattere eminentemente sociale, che non si potrebbe misconoscere senza falsarla”. Andiamo fieri di questa storia e siamo felici di vivere questi giorni a Trieste, in una terra di confine, segnata dal dialogo interculturale, ecumenico e interreligioso, da tanta sapienza antica e recente, porta che unisce est e ovest, nord e sud, ma anche terra segnata da ferite profonde che non si sono del tutto rimarginate. I troppi morti ci ammoniscono a non accettare i semi antichi e nuovi di odio e pregiudizio. Non vogliamo che i confini siano muri o, peggio, trincee, ma cerniere e ponti! Lo vogliamo perché questo è il testamento di chi sulle frontiere ha perso la vita. Lo vogliamo per quanti, a prezzo di terribili sofferenze, si sono fatti migranti e chiedono di essere considerati quello che sono: persone! Il Vangelo ci aiuta a capire che siamo fatti gli uni per gli altri, quindi gli uni con gli altri. La nostra casa comune richiede un cuore umano e spiritualmente universale. De Gasperi e gli altri Padri fondatori dell’Europa sono stati animati – sono parole sue – “dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra Patria Europa”. Ed è significativo che lo statista trentino usasse la parola patria sia per l’Italia, sia per l’Europa senza avvertire contraddizioni. I cristiani prendono sul serio la patria, tanto che sono morti per essa, ma sanno anche che c’è sempre una patria in cielo e questo ci rende familiari di tutti e a casa ovunque. Grazie, quindi, alla splendida e accogliente città di Trieste. È bello ritrovarci da ogni Regione e Diocesi d’Italia in una terra che ci parla dell’opportunità e della bellezza di vivere insieme.
La Chiesa è madre di tutti, perché solo guidata dal Vangelo. Leggere e qualificare le sue posizioni in un’ottica politica, deformando e immiserendo le sue scelte a convenienze o partigianerie, non fa comprendere la sua visione che avrà sempre e solo al centro la persona, senza aggettivi o limiti. Nel gennaio 1994, in un momento molto difficile quando – come diceva allora qualcuno – c’era il rischio che l’Italia cessasse di essere una nazione, Giovanni Paolo II scrisse ai vescovi italiani esortandoli a testimoniare “quell’eredità di valori umani e cristiani che rappresenta il patrimonio più prezioso del popolo italiano” e che declinava come “eredità di fede”, “eredità di cultura” ed “eredità dell’unità”. “Certamente oggi è necessario un profondo rinnovamento sociale e politico”, aggiungeva allora il Papa, e perciò “i laici cristiani non possono […] sottrarsi alle loro responsabilità”. La pace e lo sviluppo non sono beni conquistati una volta per tutte. Richiedono un “amore politico” che deve assumere l’unità come un obiettivo da perseguire, da difendere e da far crescere, perché l’unità non è mai statica, ma sempre dinamica!
«Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro» è il tema che ci trova riuniti. Non vogliamo accontentarci di facili lamentele sulla crisi della democrazia e sulla scarsa partecipazione al voto. Ci impegniamo per risposte positive, consapevoli, condivise, possibili. Per questo, desidero rivolgere un convinto grazie. Grazie a chi continua a partecipare nonostante la crisi del “noi” perché la Chiesa è un luogo dove ci si appassiona al prossimo e, quindi, al dialogo, come è avvenuto in assemblee, convegni, riunioni, nel cammino sinodale, proprio per il suo carattere eminentemente sociale e non egocentrico o di massa. Grazie a chi non si scoraggia. Grazie a tutti quelli che con tenacia stanno favorendo esperienze di partecipazione. Grazie agli amministratori che, pur tra sacrifici, si dedicano al bene comune e a quanti esercitano funzioni pubbliche e le adempiono con disciplina e onore (Costituzione, art. 54). Grazie a chi svolge umilmente, secondo le proprie possibilità e scelte, “un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (Costituzione, art. 4). È così che si costruiscono inclusione e convivenza, si vincono i pessimismi, si sconfiggono le furbizie che piegano a interesse privato il bene pubblico. Grazie alle tante buone pratiche che sono arrivate qui, a Trieste, per farsi conoscere, ma anche alle centinaia di buone pratiche sparse per il Paese che continuano a rendere concreti i frutti della partecipazione. Grazie a chi si impegna nel volontariato, che poi vuol dire gratuità, dono, umanità, costruzione di comunità.
Accanto al grazie, rivolgo un affettuoso incoraggiamento agli sfiduciati, a chi è ai margini della strada, a chi si sente escluso e incompreso, ai poveri, a chi chiede riconoscimento e non lo trova, a chi ha perduto la speranza. Viviamo tutti una stagione difficile e complicata. Cerchiamo di essere all’altezza della sfida. La Chiesa parla perché è libera e ha uno sguardo amorevole e benevolo verso ciascuno: di tutti è amica e preoccupata, nessuno è per lei nemico. Per questo, come Chiesa, di tempo in tempo, con la nostra esperienza umana dell’Italia, maturata tra la gente, esprimiamo “preoccupazioni”: sono testimonianze della realtà e dei suoi angoli dimenticati, sono offerte di dialogo in spirito di franchezza e collaborazione. Romano Guardini ha scritto che la democrazia non è solo un ordinamento che nasce dalla responsabilità dei singoli, ma fa riferimento anche al fatto che «ciascuno di questi singoli può fidarsi degli altri, perché sa che tutti vogliono il bene comune; lo vogliono effettivamente e non soltanto dicono di volerlo. La democrazia è tanto più reale quanto più questo atteggiamento è operante»[1]. Perciò, come ha suggerito papa Francesco in Evangelii gaudium, «non lasciamoci rubare la speranza»! (EG 86), cadendo nell’apatia o nella rassegnazione, perché la nostra democrazia può e deve essere migliore e più inclusiva.
Quale contributo, allora, può offrire la Chiesa all’Italia in questa stagione storica? La Chiesa non rivendica privilegi, non li cerca, ben consapevole di come questi in passato l’hanno fatta percepire preoccupata per sé e meno madre. Ci sentiamo parte di un Paese che sta affrontando passaggi difficili e crisi epocali: basti pensare all’inverno demografico, alla crescita delle disuguaglianze, alle percentuali di abbandono scolastico, all’astensionismo e alla disaffezione sempre più numerosa alla partecipazione democratica, alla vita scartata che diventa insignificante per l’onnipotenza che si trasforma in nichilismo distruttivo di sé stesso. Sentiamo la sfida dell’accoglienza dei migranti, della transizione ecologica, della solitudine che avvolge molte persone, della difficoltà di spazi per i giovani, dell’aumento della conflittualità nei rapporti sociali e tra i popoli, infine della guerra che domina lo scenario internazionale e proietta le sue ombre su tutto questo. Ci angoscia il fatto che oggi i “poveri assoluti” siano cresciuti fino a diventare più di 5 milioni e mezzo: 1 su 10, tantissimi. Dovremmo interrogarci con severità: come è possibile?
Quante risorse sprecate, quante opportunità perdute, quanti campi in cui è urgente una maggiore solidarietà! Pensiamo agli anziani dei quali dobbiamo proteggere la fragilità, ai disabili, ai giovani che sentono di non avere un futuro ma in realtà lo cercano, alle donne vittime della violenza maschile, a chi lavora in condizioni inaccettabili, alla casa senza la quale non c’è integrazione e nemmeno famiglia e futuro. La solidarietà è verso tutti, non guarda il passaporto perché tutti diventano il nostro prossimo e parte nel nostro futuro. Questo, però, lo costruiamo oggi e raccoglieremo e raccoglieranno quello che oggi seminiamo! L’indicazione evangelica e la Dottrina sociale della Chiesa rappresentano tanta parte dell’umanesimo che è – questa sì! – la vera identità del nostro Paese e che per questo mantiene lo sguardo critico verso possibili derive della convivenza civile.
Ecco quale è la vera rilevanza della Chiesa e dei cristiani: l’amore per Cristo che la porta necessariamente a quello per i suoi fratelli più piccoli! “Se condividiamo il pane del cielo, come non condivideremo quello della terra?”, ricordava il Cardinale Lercaro. Satnam Singh sognava il futuro e lavorava per ottenerlo: è uno di noi, lo ricordiamo con commozione e la sua vicenda è un monito che svela l’ipocrisia di tante parole che purtroppo rimangono tali e, quindi, beffarde. Sentiamo totalmente estraneo a noi il caporalato, la disumanità, lo sfruttamento delle braccia che dimenticano e umiliano la persona che offre le sue braccia. La persona che lo aveva ospitato ha detto di avergli dato il posto perché ricordava come suo papà emigrato dormisse nelle cabine telefoniche in Svizzera. La solidarietà presidia e difende la vita di tutti, tutela il diritto a nascere come quello ad essere curati e accompagnati fino alla fine, difesi dal dolore e senza che nessuna logica o calcolo affretti la morte di nessuno. La solidarietà è un motore invisibile ma indispensabile di tutta la vita collettiva. La sua mancanza indebolisce il tessuto sociale, ostacola la crescita economica, offende l’individuo e non ne sa valorizzare le capacità e, alla fine, svuota la democrazia. La solidarietà passa attraverso le comunità in cui l’uomo vive: le comunità ecclesiali e le tantissime realtà di libero e gratuito altruismo, la famiglia ma anche le comunità locali e regionali, la nazione, il continente, l’umanità intera.
Oggi la democrazia soffre perché le società sono sempre più polarizzate, attraversate cioè da tensioni sempre più aspre tra gruppi antagonisti, dominate dalla contrapposizione amico-nemico, dalla pervasiva convinzione che l’individuo è tale quando è al centro, mentre è solo nella relazione che la persona comprende il suo valore. Le pandemie ci hanno fatto comprendere il senso di comune appartenenza, di comunità di destino, di partecipazione a una vicenda collettiva. Non c’è democrazia senza un “noi”. Non c’è persona senza l’altro. La democrazia non solo afferma la libertà, ma promuove anche l’uguaglianza, non proclama astrattamente i diritti, ma difende concretamente la dignità umana soprattutto dove è più pesantemente violata. Ecco perché la democrazia non vuol dire solo istituzioni, leggi e procedure, diritti e doveri, ma anche inclusione dell’altro, del fragile, dell’emarginato. Vuol dire contrasto alla cultura dello scarto, alle dipendenze con le loro drammatiche conseguenze in tante violenze, alle condizioni indegne nelle carceri, ai tanti feriti della malattia psichiatrica.
Ben vengano nuove forme di democrazia incentrate sulla partecipazione: questa Settimana Sociale è dedicata in larga parte proprio alle buone pratiche partecipative di democrazia. Siamo contenti quando i cattolici si impegnano in politica a tutti i livelli e nelle istituzioni. Siamo portatori di voglia di comunità in una stagione in cui l’individualismo sembra sgretolare ogni costruzione di futuro e la guerra appare come la soluzione più veloce ai problemi di convivenza. I cattolici in Italia desiderano essere protagonisti nel costruire una democrazia inclusiva, dove nessuno sia scartato o venga lasciato indietro. Anche, per questo, dobbiamo essere più gioiosamente e semplicemente cristiani, disarmati perché l’unica forza è quella dell’amore.
L’Enciclica Fratelli tutti ci offre un orizzonte concreto, possibile, attraente, condiviso. Un unico popolo. Perciò, guardiamo con preoccupazione al pericolo dei populismi che, se non abbiamo memoria del passato, possono privarci della democrazia o indebolirla! La partecipazione, cuore della nostra Costituzione, consente e richiede la fioritura umana dei singoli e della società, accresce il senso di appartenenza, educa ad avere un cuore che batte con gli altri, pur tra le differenze. Quando la gente si sente parte, avviene il miracolo dell’umanizzazione dei rapporti sociali ed economici: ciò si realizza nei corpi intermedi, nelle istituzioni, sui territori, nelle grandi aree metropolitane e nelle aree interne, al Nord come al Sud. È bello per noi iniziare la Settimana Sociale in questa città di frontiera. Vogliamo incarnare uno stile inclusivo, di unità nelle differenze. Soprattutto vogliamo esprimere tutto l’amore di cui siamo capaci per il nostro Paese. Amiamo l’Italia e, per questo, ci facciamo artigiani di democrazia, servitori del bene comune.
Grazie Presidente Sergio Mattarella, perché ha voluto essere presente con noi a inaugurare giorni di impegno. Buona Settimana Sociale a tutti, tanta visione per il futuro, pronti a pagare il prezzo della speranza e del sacrificio necessario per costruire il domani di un Paese per tutti, con al centro la persona! E così è già più bello per noi!