Santa Messa del Crisma nella Basilica Vaticana

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Alle ore 9.30 di questa mattina, ricorrenza del Giovedì Santo, l’Em.mo Card. Domenico Calcagno ha presieduto, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, Liturgia che si celebra in questo giorno in tutte le Chiese Cattedrali.

Nel corso della Celebrazione Eucaristica, i sacerdoti hanno rinnovato le promesse fatte al momento della Sacra Ordinazione; quindi ha avuto luogo la benedizione dell’olio degli infermi, dell’olio dei catecumeni e del crisma.

Pubblichiamo di seguito l’Omelia preparata dal Santo Padre Francesco e pronunciata dal Card. Domenico Calcagno dopo la proclamazione del Santo Vangelo:
Carissimi Vescovi e sacerdoti,
cari fratelli e sorelle!

«L’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente» (Ap 1,8) è Gesù. Proprio il Gesù che Luca ci descrive nella sinagoga di Nazaret, tra coloro che lo conoscono fin da bambino e ora si stupiscono di Lui. La rivelazione – “apocalisse” – si offre nei limiti del tempo e dello spazio: ha la carne come cardine che sostiene la speranza. La carne di Gesù e la nostra. L’ultimo libro della Bibbia racconta questa speranza. Lo fa in modo originale, sciogliendo tutte le paure apocalittiche al sole dell’amore crocifisso. In Gesù si apre il libro della storia e lo si può leggere.

Anche noi sacerdoti abbiamo una storia: rinnovando il Giovedì Santo le promesse dell’Ordinazione, confessiamo di poterla leggere soltanto in Gesù di Nazaret. «Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue» (Ap 1,5) apre anche il rotolo della nostra vita e ci insegna a trovare i passi che ne rivelano il senso e la missione. Quando lasciamo che sia Lui a istruirci, il nostro diventa un ministero di speranza, perché in ognuna delle nostre storie Dio apre un giubileo, cioè un tempo e un’oasi di grazia. Chiediamoci: sto imparando a leggere la mia vita? Oppure ho paura a farlo?

È un popolo intero a trovare ristoro, quando il giubileo inizia nella nostra vita: non una volta ogni venticinque anni – speriamo! – ma in quella prossimità quotidiana del prete alla sua gente in cui le profezie di giustizia e di pace si adempiono. «Ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre» (Ap 1,6): ecco il popolo di Dio. Questo regno di sacerdoti non coincide con un clero. Il «noi» che Gesù plasma è un popolo di cui non vediamo i confini, in cui cadono i muri e le dogane. Colui che dice: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5) ha squarciato il velo del tempio e ha in serbo per l’umanità una città- giardino, la nuova Gerusalemme che ha porte sempre aperte (Ap 21,25). Così, Gesù legge e ci insegna a leggere il sacerdozio ministeriale come puro servizio al popolo sacerdotale, che abiterà presto una città che non ha bisogno di tempio.

L’anno giubilare rappresenta così, per noi sacerdoti, una specifica chiamata a ricominciare nel segno della conversione. Pellegrini di speranza, per uscire dal clericalismo e diventare annunciatori di speranza. Certo, se Alfa e Omega della nostra vita è Gesù, anche noi potremo incontrare il dissenso da Lui sperimentato a Nazaret. Il pastore che ama il suo popolo non vive alla ricerca di consenso e approvazione a ogni costo. Eppure, la fedeltà dell’amore converte, lo riconoscono per primi i poveri, ma lentamente inquieta e attrae anche gli altri. «Ecco, […] ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen!» (Ap 1,7).

Siamo qui radunati, carissimi, a fare nostro e ripetere questo «Sì, Amen!». È la confessione di fede del popolo di Dio: «Sì, è così, tiene come una roccia!». Passione, morte e risurrezione di Gesù, che ci apprestiamo a rivivere, sono il terreno che sostiene saldamente la Chiesa e, in essa, il nostro ministero sacerdotale. E che terreno è questo? In che humus noi possiamo non soltanto reggere, ma fiorire? Per comprenderlo bisogna ritornare a Nazaret, come intuì tanto acutamente San Charles de Foucauld.

«Venne a Nazaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere» (Lc 4,16). Abbiamo qui evocate almeno due abitudini: quella a frequentare la sinagoga e quella a leggere. La nostra vita è sostenuta da buone abitudini. Esse possono inaridirsi, ma rivelano dov’è il nostro cuore. Quello di Gesù è un cuore innamorato della Parola di Dio: a dodici anni lo si capiva già e ora, divenuto adulto, le Scritture sono casa sua. Ecco il terreno, l’humus vitale che troviamo diventando suoi discepoli. «Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo» (Lc 4,17). Gesù sa che cosa cerca. Il rituale della sinagoga lo consentiva: dopo la lettura della Torah ogni rabbi poteva trovare pagine profetiche per attualizzarne il messaggio. Ma qui c’è di più: c’è la pagina della sua vita. Luca intende questo: tra molte profezie, Gesù sceglie quale adempiere.

Cari sacerdoti, ognuno di noi ha una Parola da adempiere. Ognuno di noi ha un rapporto con la Parola di Dio che viene da lontano. Lo mettiamo a servizio di tutti solo quando la Bibbia rimane la nostra prima casa. Al suo interno, ciascuno di noi ha delle pagine più care. Questo è bello e importante! Aiutiamo anche altri a trovare le pagine della loro vita: forse gli sposi, quando scelgono le Letture del loro matrimonio; o chi è nel lutto e cerca dei brani per affidare alla misericordia di Dio e alla preghiera della comunità la persona defunta. C’è una pagina della vocazione, in genere, all’inizio del cammino di ciascuno di noi. Per suo tramite, Dio ci chiama ancora, se la custodiamo, perché non si intiepidisca l’amore.

Tuttavia, per ognuno di noi è importante anche, e in modo speciale, la pagina scelta da Gesù. Noi seguiamo Lui e per ciò stesso ci riguarda e ci coinvolge la sua missione. «Aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:

Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l’anno di grazia del Signore.
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette» (Lc 4,17-20).

Tutti i nostri occhi ora sono fissi su di Lui. Ha appena annunciato un giubileo. Lo ha fatto non come chi parla d’altri. Ha detto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me» come uno che sa di quale Spirito sta parlando. E in effetti aggiunge: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Questo è divino: che la Parola divenga realtà. I fatti ora parlano, le parole si realizzano. Questo è nuovo, è forte. «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Non c’è grazia, non c’è Messia, se le promesse restano promesse, se quaggiù non diventano realtà. Tutto si trasforma.

È questo lo Spirito che invochiamo sul nostro sacerdozio: ne siamo stati investiti e proprio lo Spirito di Gesù rimane silenzioso protagonista del nostro servizio. Il popolo ne avverte il soffio quando in noi le parole diventano realtà. I poveri, prima degli altri, e i bambini, gli adolescenti, le donne e anche coloro che nel rapporto con la Chiesa sono stati feriti, hanno il “fiuto” dello Spirito Santo: lo distinguono da altri spiriti mondani, lo riconoscono nella coincidenza in noi tra l’annuncio e la vita. Noi possiamo diventare una profezia adempiuta, e questo è bello! Il sacro Crisma, che oggi consacriamo, sigilla questo mistero trasformativo nelle diverse tappe della vita cristiana. E attenzione: mai scoraggiarsi, perché è un’opera di Dio. Credere, sì! Credere che Dio non fallisce con me! Dio non fallisce mai. Ricordiamo quella parola nell’Ordinazione: «Dio porti a compimento l’opera che in te ha iniziato». E lo fa.

È l’opera di Dio, non la nostra: portare ai poveri un lieto messaggio, ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, la libertà agli oppressi. Se Gesù nel rotolo ha trovato questo passo, oggi lo continua a leggere nella biografia di ognuno di noi. Primariamente perché, fino all’ultimo giorno, è sempre Lui a evangelizzarci, a liberarci dalle prigioni, ad aprirci gli occhi, a sollevare i pesi caricati sulle nostre spalle. E poi perché, chiamandoci alla sua missione e inserendoci sacramentalmente nella sua vita, Egli libera anche altri attraverso di noi. In genere, senza che ce ne accorgiamo. Il nostro sacerdozio diventa un ministero giubilare, come il suo, senza suonare il corno né la tromba: in una dedizione non gridata, ma radicale e gratuita. È il Regno di Dio, quello che narrano le parabole, efficace e discreto come il lievito, silenzioso come il seme. Quante volte i piccoli l’hanno riconosciuto in noi? E siamo capaci di dire grazie?

Dio solo sa quanto la messe sia abbondante. Noi operai viviamo la fatica e la gioia della mietitura. Viviamo dopo Cristo, nel tempo messianico. Bando alla disperazione! Restituzione, invece, e remissione dei debiti; ridistribuzione di responsabilità e di risorse: il popolo di Dio si attende questo. Vuole partecipare e, in forza del Battesimo, è un grande popolo sacerdotale. Gli oli che in questa solenne celebrazione consacriamo sono per la sua consolazione e la gioia messianica.

Il campo è il mondo. La nostra casa comune, tanto ferita, e la fraternità umana, così negata, ma incancellabile, ci chiamano a scelte di campo. Il raccolto di Dio è per tutti: un campo vivo, in cui cresce cento volte più di quello che si è seminato. Ci animi, nella missione, la gioia del Regno, che ripaga ogni fatica. Ogni contadino, infatti, conosce stagioni in cui non si vede nascere nulla. Non ne mancano anche nella nostra vita. È Dio che fa crescere e che unge i suoi servi con olio di letizia.

Cari fedeli, popolo della speranza, pregate oggi per la gioia dei sacerdoti. Venga a voi la liberazione promessa dalle Scritture e alimentata dai Sacramenti. Molte paure ci abitano e tremende ingiustizie ci circondano, ma un mondo nuovo è già sorto. Dio ha tanto amato il mondo da dare a noi il suo Figlio, Gesù. Egli unge le nostre ferite e asciuga le nostre lacrime. «Ecco, viene con le nubi» (Ap 1,7). Suo è il Regno e la gloria nei secoli. Amen.

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